di Valter Vecellio
"Non dire mai: di quest'acqua
io non ne bevo"
(Michela Murgia, “Accabadora”)
“Non fate troppi pettegolezzi”, scrive Cesare Pavese sul frontespizio di una copia dei “Dialoghi con Leucò”, prima di ingerire un cocktail di pillole e togliersi così la vita. Più o meno quello che chiede Lucio Magri, “emigrato” in Svizzera per poter esercitare il suo diritto a morire con dignità e senza dolore: niente necrologi.
Pettegolezzi, e – ancor peggio – meschine speculazioni, al contrario, se ne trovano in quantità, basta sfogliare qualunque quotidiano, a piacere. Il partito della sedicente vita, che più propriamente è quello della sofferenza e del dolore anche quando non hanno senso e scopo, è scatenato ancora una volta: le Melania Rizzoli, le Eugenia Roccella, le Paola Binetti, i Fabrizio Cicchitto, i Gaetano Quagliariello…un coro avvilente e volgare. Eppure per vicende come queste, il primo comandamento dovrebbe essere quello di astenersi dal giudicare, dal mostrare comunque rispetto e misericordia. Quel rispetto e quella misericordia che per esempio ha don Antonio Gallo, il fondatore della comunità di San Benedetto al Porto di Genova, esponente di quella chiesa di strada e marciapiede non a caso così invisa alla gerarchia. “Lucio”, dice don Gallo, “come l’altro mio amico Mario Monicelli, hanno tutto il mio rispetto. Lo lascio nelle mani del Grande Amore, l’Amore che non giudica, l’Amore che ama. Non giudico, non spetta a un uomo e nemmeno a un sacerdote dare giudizi”.
Misericordia. Sarà un caso, ma probabilmente no; ma parole di misericordia non si scorgono, non si trovano – o almeno io non ne ho trovate – in quelle dei sedicenti difensori della vita, mentre ci sono in quelle di Maria Antonietta Farina Coscioni, Mina Welby, Beppino Englaro: persone che hanno vissuto e patito in corpore vili quello che Leonardo Sciascia scrive nella sua “Una storia semplice”: “…ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”.
Viviamo in un paese dove il diritto a morire con dignità e senza dover soffrire inutilmente, quel diritto che non si stancava di rivendicare Indro Montanelli, non viene riconosciuto, in nome di una moralità ipocrita. Negli ospedali e nelle cliniche si fa, grazie a mani pietose di medici e infermieri, come certificano decine di sondaggi e ricerche, ma non bisogna dirlo. Si può andare, per chi ha i mezzi, in Svizzera, oppure si deve fare ricorso a gesti disperati come quello di Mario Monicelli che decide di sfracellarsi dal sesto piano. La città di Trieste è una delle città con la percentuale di anziani più alta d’Italia. Contemporaneamente è la città con una percentuale tra le più alte di suicidi. Forse una relazione c’è, forse no, non lo sappiamo. Perché il sedicente partito della vita nega perfino di poter fare un’inchiesta che ci consenta di conoscere le dimensioni del fenomeno: se e come medici e infermieri praticano l’eutanasia negli ospedali e nelle cliniche; quanti suicidi sono di persone affette da malattie incurabili e che fanno soffrire in modo insopportabile… Non si deve sapere, non se ne deve parlare. E del fenomeno si parla quando persone note, oggi Magri, ieri Monicelli, decidono che la loro vita ha perso senso e la fanno finita. Eppure tutti i sondaggi demoscopici dicono che la maggioranza degli italiani è favorevole a una fine come quella scelta di Magri, piuttosto che prolungare un’esistenza fatta di dolore e sofferenza senza scopo e rimedio. I pettegolezzi dureranno ancora qualche giorno, poi tornerà il silenzio ipocrita. E certo non è un caso se contro questo silenzio e questa ipocrisia ancora una volta troviamo i radicali e pochi altri. Avrà forse pensato Magri, negli ultimi istanti di lucidità, prima di sprofondare nel grande sonno: “Scacco matto”, da quel gran giocatore di scacchi che è sempre stato.