di Domenico D'Amati
I dipendenti dell’OMSA, dell’Iribus e in genere delle numerose aziende in crisi, di cui si discute in questi giorni sui tavoli ministeriali, appartengono, secondo le teorie riformatrici dei rapporti di lavoro, alla categoria degli “iperprotetti”, perché nelle loro fabbriche è applicabile l’articolo 18 dello Statuto. Alla luce dei fatti qualcuno dovrebbe spiegare in che cosa consista l’iperprotezione, visto che questi lavoratori stanno vivendo il dramma della disoccupazione.
E’ vero che l’articolo 18 consente al giudice di dichiarare inefficaci i licenziamenti collettivi se l’azienda non rispetta gli obblighi di informazione sulle ragioni del ridimensionamento e non applica oggettivi criteri di scelta nell’individuazione dei cosiddetti esuberi. Ma il rispetto di queste elementari esigenze di trasparenza ed equità – in occasione di avvenimenti che interessano l’economia nazionale – non sembra certo che garantisca un’iperprotezione. Tant’è vero che la manodopera delle aziende in crisi va sistematicamente a gravare sul sistema degli ammortizzatori sociali.
Questa triste casistica consente al governo dei professori di verificare in concreto i presupposti che dovrebbero legittimare la riduzione delle già scarse tutele dei lavoratori contro i licenziamenti. Se lo faranno, dovranno constatare che le più o meno arzigogolate teorie riformatrici sono destinate ad infrangersi nel confronto con la realtà.
In verità, nell’attuale situazione, queste teorie possono produrre soltanto danni, per il messaggio che trasmettono: vale a dire che la disoccupazione sia causata all’articolo 18 e non dalla mancanza, in Italia, di iniziative analoghe a quelle che imprenditori di altri paesi europei hanno saputo assumere per affermarsi nei grandi mercati emergenti.
Iniziative, beninteso, che richiedono infrastrutture, servizi, credito, sgravi fiscali e un adeguato incoraggiamento.
E non è dato comprendere come dalla riduzione della cosiddetta “iperprotezione” possa derivare un vantaggio ai lavoratori precari, la cui miserabile condizione non è dovuta all’ordinamento legislativo, ma a una diffusa illegalità cui non viene posto rimedio.
In definitiva l’unica vera categoria di iperprotetti sembra essere quella degli imprenditori che delocalizzano per accrescere i profitti. Di costoro nelle conferenze stampa e nei messaggi di fine anno non si fa menzione. Qualcuno dovrebbe ricordare che le leggi del mercato non esonerano dal rispetto di elementari doveri di solidarietà, sanciti dalla Costituzione, specie nei tempi di vacche magre.