Articolo 21 - INTERNI
Omsa: al via le delocalizzazioni, ma le lavoratrici non ci stanno
di Elisabetta Reguitti
Sulla pagina web donne fascinose mostrano ammiccando le chilometriche gambe avvolte in collant e autoreggenti Made in Italy. Davanti ai cancelli dell’azienda 350 dipendenti (età media quarant’anni) sono in presidio permanente da oltre un mese cercando di difendere il loro posto di lavoro. Benarrivati alla Omsa (del gruppo Goldenlady che detiene il 55% del venduto nazionale) di Faenza.
Un’ azienda che nonostante la crisi generale tiene botta rispetto ai contraccolpi del mercato: con un calo limitato al 15 per cento. Stiamo parlando di un gruppo consistente di società controllate (tra cui marchi Sisi, Filodoro, Philippe Mantignon, Hue, Ny Legs) che fanno capo a Nerino Grassi che però ha deciso che lo stabilimento romagnolo non rientra più nelle sue strategie aziendali e non c’è discussione che tenga.
Il padrone ha deciso di chiudere di portarsi via i macchinari e tante grazie. Ma loro le lavoratrici che hanno resa famosa l’Omsa non ci stanno.
I rappresentanti sindacali, considerando le condizioni generali dell’economia, hanno proposto di attivare dei contratti di solidarietà: lavorare meno ma lavorare tutte e anche il ministero del Lavoro si è detto favorevole fissando per martedì 16 febbraio un incontro con la proprietà che al momento tuttavia non sembra proprio sentire alcuna ragione ribadendo la volontà di spostare la produzione da Faenza al distretto mantovano (dove paradossalmente si fanno straordinari) e nelle fabbriche della Serbia dove gli operai (1600) costano meno: trecento euro al mese.
Altro che Made in Italy!
L’azienda era nata intorno agli anni ’40 per volontà di imprenditori del petrolio dal quale veniva prodotta la fibra per le calze. L’apice del successo era arrivato intorno agli anni’70 - con il boom della minigonna – e i 1000 dipendenti. A Seguire le campagne pubblicitarie in televisione, la sponsorizzazione del concorso Miss Italia; il passaggio alla famiglia mantovana dei Grassi i cambi di strategia, l’andamento del mercato e poi una tappa decisiva ma non certo favorevole ma che ricordano in molti: Sandro Veronesi (ex genero di Nerio Grassi) decide di puntare sull’intimo senza cuciture creando un polo concorrente, nel distretto mantovano, con i marchi Calzedonia, Tezenis e Intimissimi con 1350 dipendenti e oltre 800 milioni di ricavi.
Sulla vicenda Omsa interviene Idilio Galeotti segretario confederale della Cgil di Faenza.
“Attualmente le dipendenti Omsa sono in cassa integrazione ordinaria a zero ore fino al 14 marzo. Siamo molto preoccupati per l'atteggiamento della proprietà aziendale. Noi non intendiamo ostacolare il piano industriali di questa società ormai a tutti gli effetti globale. Quello che contrastiamo, al contrario, è che si cerchi di far passare il messaggio che in questo momento critico dal punto di vista economico sia tutto permesso. Comprese le delocalizzazioni selvagge senza regole e tutele per le nostra lavoratrici”.
Lavoratrici che nonostante il freddo pungente hanno deciso di presidiare questa che considerano a tutti gli effetti la loro seconda casa: “Dimora del marchio storico per eccellenza della calzetteria italiana” si legge sul sito.
Valentina Drei sposata, 35 anni di cui 10 in fabbrica nel reparto assemblaggio. Racconta: “Golden Lady è un grande gruppo, non è possibile che a Mantova facciano gli straordinari mentre noi dal 18 dicembre – inizio della pausa natalizia – non abbiamo più potuto mettere piede in azienda. Questo ci fa davvero imbufalire. Siamo disposte a tutto. Non riusciranno a schiodarci. Siamo tutte unite e in questa battaglia ci sono vicine anche le nostre famiglie perché non è facile. Alcune di noi tra l’altro hanno mariti in cassa integrazione. Bambini piccoli e mutui sul groppone”. Colpi di tosse intervallano la conversazione. “Soffro di bronchite e stare davanti ai bracieri che riscaldano non è proprio il massimo ma si fa. L’altra notte la temperatura è arrivata a meno 13 gradi è un gran freddo in questi giorni”. Al presidio le donne della Omsa fanno turni di quattro ore cercando di alternare le notti per garantire a tutte di poter riuscire anche ad occuparsi della famiglia. “L’aspetto positivo è che prima molte di noi non si conoscevano neppure ma in questa occasione abbiamo scoperto una grande solidarietà reciproca. E’ questa la nostra grande forza oltre al fatto che sappiamo che non stiamo difendendo una fabbrica morta o sull’ orlo della crisi”.
Alle parole di Valentina si aggiungono quelle di Marina Francesconi, 49 anni, una figlia di 23 anni iscritta a psicologia e un marito metalmeccanico. “Sono entrata in questa fabbrica a 19 anni a 50 anni non so fare altro se non questo lavoro. Di crisi vere ne abbiamo superate ma questa volta abbiamo davvero paura di perdere il nostro lavoro senza un vero motivo”. Oltre il danno la beffa per queste 350 donne che si sentono sbeffeggiate anche dal manager incaricato di tagliare e che non dimostra neppure rispetto per le vite che stanno dietro a chi ogni giorno timbra il cartellino. E poi un appello a tutti i media: “Non stancatevi di raccontare del lavoro che non c’è. Senza di voi noi rischiamo di essere fantasmi e di sparire nel nulla”.
Un’ azienda che nonostante la crisi generale tiene botta rispetto ai contraccolpi del mercato: con un calo limitato al 15 per cento. Stiamo parlando di un gruppo consistente di società controllate (tra cui marchi Sisi, Filodoro, Philippe Mantignon, Hue, Ny Legs) che fanno capo a Nerino Grassi che però ha deciso che lo stabilimento romagnolo non rientra più nelle sue strategie aziendali e non c’è discussione che tenga.
Il padrone ha deciso di chiudere di portarsi via i macchinari e tante grazie. Ma loro le lavoratrici che hanno resa famosa l’Omsa non ci stanno.
I rappresentanti sindacali, considerando le condizioni generali dell’economia, hanno proposto di attivare dei contratti di solidarietà: lavorare meno ma lavorare tutte e anche il ministero del Lavoro si è detto favorevole fissando per martedì 16 febbraio un incontro con la proprietà che al momento tuttavia non sembra proprio sentire alcuna ragione ribadendo la volontà di spostare la produzione da Faenza al distretto mantovano (dove paradossalmente si fanno straordinari) e nelle fabbriche della Serbia dove gli operai (1600) costano meno: trecento euro al mese.
Altro che Made in Italy!
L’azienda era nata intorno agli anni ’40 per volontà di imprenditori del petrolio dal quale veniva prodotta la fibra per le calze. L’apice del successo era arrivato intorno agli anni’70 - con il boom della minigonna – e i 1000 dipendenti. A Seguire le campagne pubblicitarie in televisione, la sponsorizzazione del concorso Miss Italia; il passaggio alla famiglia mantovana dei Grassi i cambi di strategia, l’andamento del mercato e poi una tappa decisiva ma non certo favorevole ma che ricordano in molti: Sandro Veronesi (ex genero di Nerio Grassi) decide di puntare sull’intimo senza cuciture creando un polo concorrente, nel distretto mantovano, con i marchi Calzedonia, Tezenis e Intimissimi con 1350 dipendenti e oltre 800 milioni di ricavi.
Sulla vicenda Omsa interviene Idilio Galeotti segretario confederale della Cgil di Faenza.
“Attualmente le dipendenti Omsa sono in cassa integrazione ordinaria a zero ore fino al 14 marzo. Siamo molto preoccupati per l'atteggiamento della proprietà aziendale. Noi non intendiamo ostacolare il piano industriali di questa società ormai a tutti gli effetti globale. Quello che contrastiamo, al contrario, è che si cerchi di far passare il messaggio che in questo momento critico dal punto di vista economico sia tutto permesso. Comprese le delocalizzazioni selvagge senza regole e tutele per le nostra lavoratrici”.
Lavoratrici che nonostante il freddo pungente hanno deciso di presidiare questa che considerano a tutti gli effetti la loro seconda casa: “Dimora del marchio storico per eccellenza della calzetteria italiana” si legge sul sito.
Valentina Drei sposata, 35 anni di cui 10 in fabbrica nel reparto assemblaggio. Racconta: “Golden Lady è un grande gruppo, non è possibile che a Mantova facciano gli straordinari mentre noi dal 18 dicembre – inizio della pausa natalizia – non abbiamo più potuto mettere piede in azienda. Questo ci fa davvero imbufalire. Siamo disposte a tutto. Non riusciranno a schiodarci. Siamo tutte unite e in questa battaglia ci sono vicine anche le nostre famiglie perché non è facile. Alcune di noi tra l’altro hanno mariti in cassa integrazione. Bambini piccoli e mutui sul groppone”. Colpi di tosse intervallano la conversazione. “Soffro di bronchite e stare davanti ai bracieri che riscaldano non è proprio il massimo ma si fa. L’altra notte la temperatura è arrivata a meno 13 gradi è un gran freddo in questi giorni”. Al presidio le donne della Omsa fanno turni di quattro ore cercando di alternare le notti per garantire a tutte di poter riuscire anche ad occuparsi della famiglia. “L’aspetto positivo è che prima molte di noi non si conoscevano neppure ma in questa occasione abbiamo scoperto una grande solidarietà reciproca. E’ questa la nostra grande forza oltre al fatto che sappiamo che non stiamo difendendo una fabbrica morta o sull’ orlo della crisi”.
Alle parole di Valentina si aggiungono quelle di Marina Francesconi, 49 anni, una figlia di 23 anni iscritta a psicologia e un marito metalmeccanico. “Sono entrata in questa fabbrica a 19 anni a 50 anni non so fare altro se non questo lavoro. Di crisi vere ne abbiamo superate ma questa volta abbiamo davvero paura di perdere il nostro lavoro senza un vero motivo”. Oltre il danno la beffa per queste 350 donne che si sentono sbeffeggiate anche dal manager incaricato di tagliare e che non dimostra neppure rispetto per le vite che stanno dietro a chi ogni giorno timbra il cartellino. E poi un appello a tutti i media: “Non stancatevi di raccontare del lavoro che non c’è. Senza di voi noi rischiamo di essere fantasmi e di sparire nel nulla”.
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