Articolo 21 - INTERNI
Dall'art.18 alla Faber...
di Fabrizio Ricci
Il dibattito sulla modifica o addirittura la cancellazione dell'articolo 18 appare
ogni giorno più surreale. Lo scorso 12 gennaio, con un comunicato inviato ai mezzi
di informazione, prima ancora che alle organizzazioni sindacali, la multinazionale
Franke ha annunciato la sua “scelta” di chiudere la fabbrica Faber di Fossato di
Vico, azienda che produce cappe aspiranti per cucine, storico presidio produttivo
della fascia appenninica umbra, in cui lavorano attualmente 190 donne e uomini,
per lo più giovani e giovanissimi. La chiusura non trova alcuna giustificazione
oggettiva di carattere economico. L'azienda è efficiente, ha mercato, lo scorso
anno ha addirittura ricevuto un premio per la qualità delle sue produzioni. Ma la
multinazionale svizzera segue altri criteri. Probabilmente, vuole soltanto
delocalizzare in Paesi dove il lavoro costa meno e così, in perfetto stile Omsa,
fa una croce sopra la fabbrica di Fossato e annuncia, senza battere ciglio, il
licenziamento di 190 lavoratrici e lavoratori.
Di fronte a questo tipo di eventi, non c'è nemmeno bisogno che sia il Censis a
ricordarci che in Italia licenziare non solo è possibile, ma è normale, tanto che
nel 2010 circa 2/3 delle uscite di lavoratrici e lavoratori dalle aziende è
avvenuto per scelta imprenditoriale (licenziamenti o mancati rinnovi). E' molto
più semplice andare a parlare con gli operai della Faber di Fossato, o spostarsi
di pochi chilometri per sentire cosa pensano quelli della Merloni, rimasti fuori
in centinaia dopo il fallimento e il passaggio a una nuova proprietà dell'azienda
di elettrodomestici. Insomma, basta farsi un giro per l'Appennino umbro, tra
Nocera, Gualdo, Fossato, per capire che tra i tanti problemi dell'Italia, quello
della “eccessiva rigidità” del mercato del lavoro - concetto che tradotto in una
lingua più comprensibile vuol dire “impossibilità di licenziare a piacimento” - è
davvero un affronto all'intelligenza, oltre che alla dignità di chi, ancora,
lavora.
ogni giorno più surreale. Lo scorso 12 gennaio, con un comunicato inviato ai mezzi
di informazione, prima ancora che alle organizzazioni sindacali, la multinazionale
Franke ha annunciato la sua “scelta” di chiudere la fabbrica Faber di Fossato di
Vico, azienda che produce cappe aspiranti per cucine, storico presidio produttivo
della fascia appenninica umbra, in cui lavorano attualmente 190 donne e uomini,
per lo più giovani e giovanissimi. La chiusura non trova alcuna giustificazione
oggettiva di carattere economico. L'azienda è efficiente, ha mercato, lo scorso
anno ha addirittura ricevuto un premio per la qualità delle sue produzioni. Ma la
multinazionale svizzera segue altri criteri. Probabilmente, vuole soltanto
delocalizzare in Paesi dove il lavoro costa meno e così, in perfetto stile Omsa,
fa una croce sopra la fabbrica di Fossato e annuncia, senza battere ciglio, il
licenziamento di 190 lavoratrici e lavoratori.
Di fronte a questo tipo di eventi, non c'è nemmeno bisogno che sia il Censis a
ricordarci che in Italia licenziare non solo è possibile, ma è normale, tanto che
nel 2010 circa 2/3 delle uscite di lavoratrici e lavoratori dalle aziende è
avvenuto per scelta imprenditoriale (licenziamenti o mancati rinnovi). E' molto
più semplice andare a parlare con gli operai della Faber di Fossato, o spostarsi
di pochi chilometri per sentire cosa pensano quelli della Merloni, rimasti fuori
in centinaia dopo il fallimento e il passaggio a una nuova proprietà dell'azienda
di elettrodomestici. Insomma, basta farsi un giro per l'Appennino umbro, tra
Nocera, Gualdo, Fossato, per capire che tra i tanti problemi dell'Italia, quello
della “eccessiva rigidità” del mercato del lavoro - concetto che tradotto in una
lingua più comprensibile vuol dire “impossibilità di licenziare a piacimento” - è
davvero un affronto all'intelligenza, oltre che alla dignità di chi, ancora,
lavora.
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