di Giovanni Sabbatucci
da Il Messaggero
PER la coalizione di centro-sinistra e per il suo leader riconosciuto (anche se non ufficialmente incoronato), Romano Prodi, il vertice â??allargatoâ? che si tiene oggi a Roma rappresenta, se non un successo, almeno una certificazione di esistenza in vita. Servirà comunque a mettere sul tappeto, e possibilmente a chiarire, i nodi più intricati (sulla leadership e sui suoi meccanismi di selezione, sul programma e sulla configurazione interna dell'alleanza) attorno ai quali l'opposizione si sta arrovellando ormai da parecchie settimane, a tutto scapito della sua immagine pubblica e della sua capacità operativa. Il guaio è che quei nodi sono così complessi e così strettamente intrecciati fra loro da rendere assai problematico uno scioglimento, almeno nei tempi brevi.
Partiamo dalla questione sinora più dibattuta, quella relativa all'assetto della coalizione e al modo in cui dovrà presentarsi agli elettori. Su questo punto, è evidente che la soluzione trovata nella primavera scorsa, e parzialmente sperimentata con esito non negativo nella tornata elettorale di giugno (quella che vede i riformisti uniti fra loro e alleati con gli spezzoni della sinistra â??radicaleâ?), oggi regge sempre meno, per quante assicurazioni in contrario possano dare i suoi sostenitori. E questo non solo per la naturale riluttanza dei partiti federandi a conferire alla federazione e al suo leader pezzi importanti della propria sovranità (anche in materia di selezione delle candidature). Non solo per il rinnovato protagonismo di Bertinotti, e simmetricamente di Rutelli, che implicitamente rinvia a un assetto tripolare dell'alleanza. Ma anche per alcune scelte di Romano Prodi: il quale, nell'intento (in sé comprensibile) di rafforzare la sua leadership e di esorcizzare lo spettro del '98, tende a coinvolgere nei processi decisionali e nell'elaborazione programmatica l'intero arco degli alleati, da Mastella a Bertinotti (lo dimostra la proposta di elaborare tutti insieme, nel vertice di domani, un abbozzo di contro-finanziaria). In questo modo, però, finisce inevitabilmente con l'indebolire il progetto di federazione. Senza peraltro riuscire a limitare la libertà di movimento del leader di Rifondazione, che anzi profitterà di eventuali primarie per ribadire il suo ruolo di antagonista e insieme di co-gestore della linea della coalizione e per mettere ulteriormente in ombra l'immagine del maggior partito della coalizione, i ds.
In questo scenario già complicato (e destinato a complicarsi ulteriormente se davvero si dovesse arrivare alle primarie, anche per la scelta dei candidati alle regionali del 2005), un altro durissimo colpo al progetto di unità riformista arriva dalle richieste programmatiche della Cgil. Disegnando una piattaforma che fa proprie alcune istanze tipiche della sinistra radicale (per esempio, far piazza pulita della legislazione varata dal centro-destra) e che, almeno in alcuni punti (primo fra tutti la patrimoniale), risulta incompatibile con quella proposta dalle componenti â??moderateâ? della Margherita e dei ds, Epifani introduce un cuneo di notevoli proporzioni nella compagine, già fragile, della costituenda federazione e la pone di fronte a un'imbarazzante alternativa: entrare in conflitto con la maggiore organizzazione sindacale italiana, vicina per storia e per tradizione alle componenti riformiste del movimento operaio (almeno fino a quando, tre anni fa, Cofferati la fece incautamente schierare a fianco del correntone di sinistra dei ds) o scolorire la sua connotazione originaria e smarrire così la sua stessa ragion d'essere.
Credo che quest'ultimo sia il rischio maggiore non solo per il progetto di federazione riformista, ma per le sorti elettorali dell'intero centro-sinistra. Lasciamo pure da parte la questione, che può apparire astratta, della connotazione ideologico-programmatica di una coalizione che compete per il governo (o quella, che può apparire accademica ma non lo è, del ruolo dell'elettorato di centro in un confronto bipolare). Resta il fatto che andare alle elezioni innalzando la bandiera della patrimoniale (in pratica, la tassa sugli immobili) in un paese in cui la maggioranza è costituita da proprietari di case è scelta quanto meno discutibile; come lo è, più in generale, la rinuncia a qualsiasi progetto realmente innovativo, in nome della fedeltà alle formule e ai valori identitari del passato. Non sarebbe, del resto, la prima volta che la sinistra italiana riesce a trovare il suo equilibrio interno solo attestandosi su una piattaforma che la porta alla sconfitta.