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Articolo 21 - ESTERI
Repubblicani: l'ora di Bush III?
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di Guido Moltedo

Repubblicani: l'ora di Bush III? Torna d'attualità lo scenario di una convention "aperta". Con al centro la figura di Jeb Bush, erede di una solida dinastia politica, il quale, proprio per questo, avrebbe le carte giuste per mettere d'accordo le anime in conflitto del Partito repubblicano. Scenario tutt'altro che fantapolitico, dopo l'esito del super martedì, lo «stupid Tuesday» - per dirla con The National Memo - che non ha sciolto l'enigma Romney. L'ex governatore ha a disposizione pochi round di primarie per dimostrare di avere la caratura per aspirare alla presidenza degli Stati Uniti. Se, infatti, le prossime primarie non riusciranno a definire la statura di Mitt Romney come candidato in grado di essere sostenuto da tutto il partito, allora tutto potrebbe essere rimesso in discussione a fine agosto, a Tampa, sede della convention repubblicana.
Gli oltre mille delegati potrebbero invocare e incoronare un personaggio fuori della mischia. Come appunto John Ellis "Jeb" Pierce Bush, nato nel 1953, governatore della Florida dal 1999 al 2007, nipote del senatore del Connecticut Prescott Bush, figlio del presidente George Herbert Walker Bush, fratello del presidente George Walker Bush. E padre di George P. e Jeb jr, entrambi attivi nella politica della Florida. Che l'impasse repubblicano possa essere risolto da una figura considerata autorevole, non triturata dal gioco al massacro delle primarie, è una possibilità remota, anche se tutt'altro che cervellotica.

La convention non è un luogo di ratifica formale delle primarie. Come in un congresso, il delegato espressione di un determinato candidato può anche spostare il proprio voto su un altro. Fu questo che cercò di fare - ma poi desistette - Ted Kennedy alla convention democratica di New York, nell'agosto 1980, nel tentativo di detronizzare Jimmy Carter. Allora il brand di un clan politico venerato dal popolo democratico fu agitato per scongiurare la nomination di un candidato debole, che infatti si giocò la rielezione contro Ronald Reagan. La storia non è detto che si ripeta. Ma che di nuovo si parli della forza di una dinastia come risorsa per uscire dalle difficoltà da parte di un partito allo sbando, dà la misura di quanto la politica americana resti fortemente condizionata dai clan politici.

Sofisticatissime campagne elettorali, condotte da guru della comunicazione e da maghi dei sondaggi, devono sempre fare i conti con una dimensione medievale del potere, nella quale contano i cognomi "stagionati", intorno ai quali nascono e si sviluppano mitologie. Una dimensione d'altri tempi, dal punto di vista europeo, nella quale hanno un peso enorme anche i signori del denaro (più delle lobby e dei gruppi d'interesse), in grado di investire fiumi di denaro personale, sostenendo sfacciatamente candidati a misura dei propri interessi economici e politici che stanno loro a cuore (come i fratelli Koch, tycoon del petrolio, o Shel Adelson, re del gioco d'azzardo e dell'industria alberghiera).
Non si pensi solo alle dinastie più note, anche al di fuori dell'America. Se fosse questione di alcune famiglie, il fenomeno sarebbe simile a quello di tanti altri paesi, compresi quelli europei, dove il familismo è ben presente. Negli Stati Uniti, sono numerosi i clan familiari, e con estese diramazioni. Lo stesso Mitt Romney è figlio di George W. Romney, governatore del Michigan e candidato nelle primarie repubblicane nel 1968.

Sua madre Lenore si candidò per il senato nel 1970. Suo fratello Scott è un importante esponente repubblicano in Michigan. I cinque figli maschi sono attivi nella campagna elettorale del padre e non nascondono ambizioni politiche. Mitt ha implorato più volte l'endorsement di Jeb Bush, che però si è tenuto alla larga dalla mischia elettorale, alimentando così le voci che lo vogliono "riserva" di lusso a Tampa.
Si è dovuto accontentare, Romney, della benedizione, non ufficiale però, di Bush padre. Perché, per quanto potente, il clan Romney, non ha il peso di quello dei Bush. Sembra il sistema di potere delle famiglie medievali, che cercavano l'alleanza o la protezione di quelle più importanti. Fu uno smacco, per Hillary Clinton, quando Ted Kennedy sostenne pubblicamente e con passione la candidatura di Barack Obama. I Clinton, ormai anche loro un clan, con Chelsea in procinto di entrare in politica, vissero molto male - innanzitutto come famiglia politica di peso nei giochi del Partito democratico - lo schieramento di Teddy al fianco di Obama.

Come Romney, anche un altro candidato repubblicano, il padrino dei Tea Party, Ron Paul è il membro - ne è il patriarca - di una famiglia politica emergente. Suo figlio Rand è senatore del Kentucky, l'altro figlio Robert è medico in Texas e si dice sia tentato dalla politica.
Interessante notare che il vecchio Ron si muove in queste primarie con l'occhio costantemente rivolto alla sorte del figlio senatore. Nel senso che potrebbe "contrattare" i suoi voti non per se stesso, ma in vista di una futura corsa presidenziale di Rand. Stupisce che un paese nato dalla lotta contro la monarchia riproduca più dell'Inghilterra stessa gli schemi tipici di una politica basata sull'aristocrazia del nome e del denaro. Ma è così.
Una famiglia potente è un "eroe collettivo" nell'immaginario politico americano. E ha tutto l'interesse a raccontarsi così. I Kennedy si facevano ritrarre volentieri come clan a Hyannisport. Come i Bush a Kennenbunkport. Romney non vuole essere da meno e sta ampliando la tenuta di famiglia sul mare californiano, a La Jolla. Le foto di gruppo di un clan servono ad alimentare il mito. Joe Biden con la sua numerosa famiglia è il nuovo re del Delaware, un tempo dominato dai potenti du Pont.

Non solo sostiene il suo erede Beau, ma in un importante tour in Asia si fa accompagnare dalla bellissima nipote diciottenne Naomi, anche lei pronta entrare nell'agone. Come le figlie di Nancy Pelosi, figlia sua volta del sindaco di Baltimora Thomas D'Alesandro e sorella di Thomas D'Alesandro jr, anch'egli sindaco di Baltimora.
Famiglie che accumulano fortune, con la politica. Un nome forte è un magnete di donazioni e investimenti. In America le strutture di partito "all'europea" hanno contato e contano poco. Contano di più le famiglie, nomi che tutti conoscono. Che aggregano sostegni e soldi. Per questo sentiremo presto parlare di Jeb. Se non questa volta, nel 2016.

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