di Fernando Cancedda
Câ??è un rapporto tra la qualità dellâ??informazione e lâ??autonomia professionale dei giornalisti? Se câ??è, si deve riconoscere che la politica italiana ha sempre fatto molta fatica ad ammetterlo. Mi chiedo perché anche il centro sinistra abbia sempre concentrato la sua attenzione sui vertici del potere mediatico trascurando le articolazioni strutturali e di potere interne alle imprese, articolazioni che a causa della loro rigidità consentono oggi come ieri a quei vertici di imporre il prodotto che vogliono. Davvero tutto dipende soltanto dalle nomine dei consigli dâ??amministrazione e dei direttori? Quando il Presidente della Repubblica Ciampi esorta i giornalisti a tenere la schiena diritta si rivolge soltanto ai direttori di giornale? No, perché le schiene â??piegateâ? ci sono, e sono anzi in aumento, a tutti i livelli della professione. Purtroppo si fa poco per evitarlo.
Ho quarantâ??anni di giornalismo, quasi tutti passati alla RAI. Per decenni il potere politico, di centro, di destra ma a volte anche di sinistra ha puntato al controllo dellâ??informazione attraverso le nomine dei vertici e la lottizzazione dei quadri intermedi. Si badava sempre meno alla professionalità nella misura in cui cresceva la â??militarizzazioneâ? delle reti e delle testate. La schiena â??piegataâ?, accarezzata da ogni editore di riferimento, era il mezzo più facile per fare carriera. E poiché al cambio dei vertici si accompagnava poi il ricambio dei quadri dirigenti intermedi, ad ogni tornata di nomine aumentava la disponibilità e diminuiva la qualità professionale dei giornalisti. Con qualche eccezione, ma la musica era ed è rimasta questa. Il conformismo delle â??schiene piegateâ? nasce in primo luogo da qui.
Semmai in questi anni lâ??involuzione liberista del mercato del lavoro, moltiplicando il potere di controllo dei vertici attraverso lo sfruttamento del precariato e raffinate tecniche di mobbing per emarginare gli indocili, ha aggravato ulteriormente il quadro. La pressione si è fatta irresistibile. Diciamo pure che pochi hanno la forza di dire dei no, come pure dovrebbero se si pretende da loro di venir meno agli obblighi di lealtà verso i cittadini. Obblighi consacrati da leggi e carte deontologiche, come quello di garantire unâ??informazione completa, veritiera, corretta e imparziale.
Ma non voglio fare del moralismo, per giunta velleitario. Il prezzo da pagare per rispettare quegli obblighi può anche essere molto pesante per il singolo operatore. Non tutti sono eroi e anche gli eroi sono stanchi. Perciò, se crediamo che siano davvero in gioco la dignità della professione e anche qualcosa di più - il diritto dei cittadini ad avere unâ??informazione seria e corretta - allora il prezzo deve essere pagato collettivamente, attraverso la solidarietà . Solidarietà dei colleghi in primo luogo, della politica e della società civile.
Intervenire in casi clamorosi e isolati come quelli di Biagi e Santoro è giusto ma non sufficiente. Allâ??origine della cattiva informazione câ??è una patologia diffusa: direzione, impostazione, organizzazione del lavoro subalterne a logiche mercantili o di schieramento; sfruttamento e dequalificazione dei redattori, trattati e valutati sempre meno come professionisti e sempre più come impiegati; prevaricazioni e ricatti che restano nellâ??ombra e che nessuno allâ??interno denuncia per timore di compromettersi a sua volta. I giornalisti più anziani non insegnano più ai giovani, costretti a difendere uno spazio assediato. Eâ?? cambiata la scala dei valori professionali. La conduzione di un telegiornale o di un talk show, la popolarità ottenuta facilmente attraverso lo schermo sono di gran lunga la gratificazione più ambita. Câ??è da stupirsi che sia sempre più difficile trovare giornalisti capaci di fare vere interviste (peraltro quasi scomparse dai telegiornali) o di preparare con cura inchieste e reportage? Ditemi: câ??entra o non câ??entra con la qualità dellâ??informazione tutto questo?
Quello che voglio dire è che di questa patologia diffusa e ormai cronica nessuno in sede politica sembra volersi occupare. In modo concreto e operativo, intendo. Tutto è cambiato nel mondo della comunicazione ma lâ??ordinamento della professione giornalistica è ancora quello del â??63. Né la prima né la seconda repubblica sono stati capaci di riformarlo. Proposte di legge dormono nei cassetti da decenni. Ogni tanto ritorna lâ??idea di uno statuto dellâ??impresa giornalistica: un dibattito e via.
Si esita ad intervenire su una materia che si dice debba essere lasciata alla libera contrattazione tra editori e giornalisti. Sarebbe unâ??obbiezione possibile se almeno gli equilibri del mercato consentissero una contrattazione davvero libera. Purtroppo non è così. Avrebbe per esempio il sindacato la forza di ridimensionare la dittatura prevista dallâ??articolo 6 del Contratto di lavoro ora che il direttore-manager ha cessato di essere il garante dellâ??autonomia della redazione?
Dunque, bisogna decidersi. Se la correttezza della comunicazione e il pluralismo anche interno ad ogni singola rete o testata, se la qualità dellâ??informazione e lâ??autonomia professionale dei giornalisti sono da considerare interesse pubblico, non possono essere affidati soltanto al mercato e ad una trattativa fra editori e giornalisti che vede questi ultimi ogni volta più deboli. Associazioni come Articolo 21 debbono battersi perché i partiti di centro sinistra inseriscano finalmente nei loro programmi anche queste tematiche e provvedano ad affrontarle in Parlamento e al governo del Paese.