di Federico Orlando*
Vorrei consentire molto e dissentire un po’ da quanto ha scritto meritoriamente Fabio Martini su Europa, nell’articolo di martedì “Troppo gossip? No,troppa politica”. Meritoriamente perché ha tirato la pietra nel nostro stagno. Il collega della Stampa ci invita a parlare dei nostri limiti, trucchi, vizi, della nostra vocazione consociativa, scoprire i nostri talloni d’Achille, per migliorarci, e intanto per abbozzare qualche replica alle molte e opposte critiche che ci colpiscono: troppa timidezza, troppo coinvolgimento, poco orgoglio professionale, troppa tendenza a nascondersi dietro mancanza di editori “puri”, invadenza di politici, ricatto di inserzionisti di pubblicità, ecc.
A Martini voglio intanto dire che tutte le cose dietro le quali “ci nascondiamo” (editori impuri, politici invadenti, inserzionisti ricattatori, mercato asfittico) sono realtà, come lo sono i nostri difetti: in parte difetti congeniti di italiani, in parte difetti imposti da un mercato e da una funzione giornalistica violentati dai superpoteri, in un paese che non sente più orgoglio di conoscere le verità di quanto i giornalisti ne abbiano di cercarle e comunicarle.
Credo anche che Martini converrà con me che il suo osservatorio di giornalista parlamentare è particolarmente disagevole. Il giornalista parlamentare è spesso parte integrante del sistema di potere, invece di esserne controparte per la democrazia e per uno straccetto di etica professionale. Sono stato giornalista parlamentare con tanto di patentino, e sono andato in parlamento il meno possibile. Una volta ebbi questo dialoghetto con l’onorevole De Mita, che pubblicava i miei libri presso la casa editrice Cinque Lune e che io, liberale militante, apprezzavo nei tentativi che faceva di modernizzare la Balena bianca. Mi imbarcò in una “vasca” nel Transatlantico e mi disse: “Lei è bravo (bontà sua), ma si fa vedere poco in parlamento”. Risposi: “Per non legarmi di amicizia ai politici, e restare indipendente”. “Giusto – mi disse -, ma avrà meno informazioni degli altri”. “Lo so – replicai ancora – e lavorando il doppio cerco di avere le notizie fuori di qui”. Non insistette, e i nostri buoni rapporti non cambiarono. Ora mi sorprende leggere nell’articolo di Martini che il neodirettore del Tg1, inventore del “retroscena” come quintessenza del giornalismo politico, abbia detto ai nuovi colleghi, nella sua prima lezione di deontologia, che sui media c’è troppo gossip. Meglio l’arco di trionfo per il caffè di Obama a Berlusconi?
Tutti i giornalisti italiani, almeno fino alla mia generazione, conoscevano una celebre battuta di Mario Missiroli, che fu principe della carta stampata nella prima metà del Novecento, come Indro Montanelli lo fu nella seconda. Di Missiroli si diceva che sognava un paese dove non accadesse mai niente; e che, da direttore del Carlino, del Messaggero, del Corriere, per mezzo secolo aveva applicato a diecine di crisi di governo sempre lo stesso schema in tre puntate: alla caduta del governo, “Un errore catastrofico”, al delinearsi di una nuova maggioranza, “Una felice prospettiva”, alla nascita del nuovo governo, “Ottima soluzione”. Più che uno schema precostituito, una filosofia di vita, a cui i fatti servivano da alibi e conferma. Come i retroscena, che raccolgono informazioni (e, se no, dichiarazioni pilotate), per convalidare l’idea a priori del giornalista e dargli forma di cronaca. Un giorno un giovane redattore del Corriere propose a Missiroli di potersi impegnare in un’inchiesta su non so quale infognamento politico-finanziario. “Lei ha ragione, ragazzo – sospirò il Maestro -. Ci vorrebbe un giornale”. Il giornalismo d’inchiesta si paga con l’inchiesta sul giornalismo.
Nei mesi che precedettero la rottura Berlusconi-Montanelli sulla linea politica dei moderati, che l’editore voleva reazionaria e noi liberaldemocratica, il direttore insisteva a dire ai lettori che, fino al giorno prima, Berlusconi era stato il miglior editore possibile, non solo perché ripianava i debiti del Giornale (taceva dei vantaggi che il giornale procurava ad altri affari dell’imprenditore), ma perché non telefonava mai al direttore per provare a dettargli la linea. “Però ci prova due volte al giorno con me”, che ero il condirettore operativo, accusato dalla loggia di aver “guastato” Montanelli. Ecco un classico di quel che Fabio Martini definisce “i nostri limiti, i nostri trucchi e vizi ”, che finiscono col rendere credibili i politici, “loro così prepotenti”, quando li denunciano. Il fatto è che nessuno meglio e più di loro conosce e sa leggere nel nostro intimo la differenza che passa tra il frondista e l’oppositore.
“Naturalmente – scrive Fabio Martini, e da testimone glie ne sono grato – non mancano i direttori tosti e i cronisti liberi, le stagioni felici di questo o quel giornale, le inchieste penetranti. Tanto, ma ancora troppo poco per essere credibili”. Questa frase andrebbe stampata in tutte le stanze delle redazioni. Naturalmente, non si pretende né si desidera che ci sia uno schema unico per tutti i giornali. E’ legittimo che ci siano anche i giornali-partito, io ho pilotato con piacere un giornale-partito. Altrimenti la politica come formazione del consenso la farebbero solo i monopoli Rai e Mediaset a reti unificate. “Ha visto, lei, che bel successo ha avuto Berlusconi con Obama?” mi hanno apostrofato ieri in autobus. “E chi ve l’ha detto?” “Ma tutti i telegiornali, lei non li vede?” Il paese reale è questo, non quello del circuito Palazzo-giornalisti-Palazzo. I giornalisti che informano anzi modellano il paese reale sono quelli del messaggio “subliminale”, il cameraman complice. Il loro editore siamo noi che paghiamo il canone, o l’azienda privata del presidente del consiglio. Vogliamo dispiacerci che esistano giornali-partito, dichiarati? L’errore dei giornali-partito, non tutti, è semmai di essere gridati, appunto huligan della curva destra o sinistra. Dico però che se la Repubblica non facesse intera la sua battaglia, aggiungendo il suo tifo a un’alta cultura politica e generale, l’informazione italiana sarebbe un Mar morto: non lo è perché c’è ancora chbi fa l’opposizione, non la fronda. Aspirare ad avere molto di più, caro Fabio, è legittimo. Sempre ricordandoci che i mali storici della nostra informazione, a cominciare dalla mancanza dell’editore puro (modello Washington Post-inchiesta Watergate), non sono scuse, sono realtà che trapassano i regimi, come le metamorfosi del vampiro. Non è successo qualcosa proprio al tuo bel giornale, di recente?
tratto da Europa 18 giugno 2009