di Daniela Brancati
da Avvenimenti
Siamo alla vigilia di una privatizzazione della Rai con più incognite che certezze. Una privatizzazione di cui si parla molto, senza che nessuno si decida a chiarire il tema di fondo: qual è la mission aziendale della Rai. Senza aver definito questa, ogni dibattito se lâ??azienda debba restare in mano pubblica, essere ceduta ai privati in parte o del tutto, è privo di base logica. Ã? insomma, puro partito preso, posizione sentimentale o preconcetta. Tutto era chiarissimo fino alla metà degli anni 70: alla Rai il compito di fornire al pubblico un servizio di interesse generale per il quale ricevere un canone e unâ??entrata sussidiaria (realmente sussidiaria) cioè la pubblicità , relegata a pochi spazi nel palinsesto. Con gli anni e a causa della concorrenza nata nel frattempo, questa mission si è intorbidita, fino al punto da non lasciar più trasparire il fondo del problema: la Rai è ancora un servizio pubblico, deve essere trattata come tale, deve comportarsi come tale?
Ma, sia chiaro, la Rai in questo non ha responsabilità . Ã? unâ??azienda a cui si chiede di stare sul mercato, e al suo meglio è quello che fa. Che ha fatto in tutti questi anni, sia pure con alterne abilità e sensibilità di chi lâ??ha guidata. Purtroppo nella quotidianità del fare, del fronteggiare la concorrenza, si fanno cose che non hanno nesso alcuno con il servizio pubblico. Chi potrebbe seriamente dire che i vari quiz prima e dopo il Tg1 obbediscono alla mission di servizio pubblico?
Per non citare i reality show. Grazie ai quali però la Rai batte la concorrenza, e senza i quali non si procaccerebbe le risorse pubblicitarie (da molti anni non più sussidiarie, ma necessarie), che le consentono di mantenere la sua quota di mercato, la sua occupazione e lâ??indotto, in una spirale che qualcuno deve pure avere il coraggio di spezzare, e questo qualcuno non può essere lâ??azienda, ma chi le fornisce la mission: ovvero il Parlamento. Il problema è che il Parlamento è venuto meno in tutti questi anni alla sua funzione di guida, si è fatto trascinare dagli eventi che venivano determinati dal mondo dellâ??impresa, e non ha fornito alle aziende quel quadro di certezze e di norme che consentono a tutti di vivere e prosperare.
Il gioco è sfuggito di mano ai politici circa dal 1980, anno più anno meno. Gli anni della allora resistibile ascesa di Silvio Berlusconi. Resistibile a patto che qualcuno avesse creduto nel mercato per regolamentarlo e non per bloccarlo. Ã? bene partire da questa consapevolezza: persa lâ??occasione, allora non compresa dalla sinistra italiana, di non difendere lo statu quo ormai inadeguato, ma di aprire il mercato in un sistema di regole che allora sarebbero state condivise da moltissimi rappresentanti del sistema imprenditoriale, nessuna vera riforma è stata più possibile. E anche quando qualcuno si è illuso di scrivere una legge, in realtà si limitava a fotografare lâ??esistente. Onore allâ??abilità dellâ??imprenditore Berlusconi, che â??con ogni mezzoâ? (lâ??analisi di questo inciso la rimandiamo ad altra sede) ha difeso lâ??esistenza e la crescita delle sue aziende fino al punto di diventare semimonopolista. Disonore di quanti avrebbero dovuto capire e contrastare questo progetto. Oggi ci troviamo con un sistema apparentemente inemendabile, apparentemente bloccato. E non solo, badate, perché il governo guidato dallâ??imprenditore-politico ha fatto una legge che lo ingessa come è. Perché onestamente bisogna riconoscere che i governi del centrosinistra non riuscirono a far applicare neanche la legge che chiedeva la diversa modalità di trasmissione di Retequattro, facendola passare dallâ??emissione terrestre a quella satellitare. Sul perché lâ??abbiano fatto, anche qui rimandiamo ad altra sede.
Eppure, la richiesta di sbloccare lâ??intero sistema della televisione è forte: viene dalla natura stessa della democrazia che chiede pluralismo informativo. Viene dalla necessità di garantire a tutti gli attori della comunicazione le risorse per vivere (a cominciare dagli editori di giornali). Viene dallâ??Unione europea cha ha più volte giudicato anomala la situazione italiana. E viene dalla coscienza collettiva, che non sarebbe pronta ad azioni di carattere punitivo, (vogliamo ricordare lâ??autentico, a mio parere, atto di karakiri che fu promuovere un referendum popolare per togliere le reti a Berlusconi?) ma sollecita chiarezza. Per molti anni i difensori dello statu quo dicevano che la Rai doveva essere e restare al centro del sistema. Per molti anni lo stesso proprietario di Mediaset giustificava la propria necessità di agire con tre reti per simmetria con la Rai. Dunque la Rai nel bene e nel male è la misura del sistema. E da lì bisogna cominciare per riformarlo.
Per iniziare proprio dallâ??inizio, la prima domanda da farsi è: serve ancora un servizio pubblico tv? Serviva, è ovvio, allâ??epoca dellâ??alfabetizzazione della popolazione. Serviva quando era un monopolio. Ma ora? Ora la risposta è ancora sì, ma con dei distinguo. Sì, fortemente, per quanto riguarda la rete, gli impianti di trasmissione. Che sono forza strategica. Sì, anche, per un canale sperimentale, che inventi e veicoli idee e talenti nuovi. Sì, per lâ??informazione e la cultura, per lâ??educational e perfino per gli sport popolari, che potrebbero essere sottratti alla necessità di pagare, che esclude tanti dallâ??accesso. Sì, senza dubbio per lâ??emersione di tutte quelle realtà che altrimenti resterebbero fuori dal sistema. Esattamente come sono fuori oggi che la Rai compete col privato, anziché confrontarsi con il suo ruolo di servizio pubblico. Ma no, mille volte no, per tutto quello che sul mercato starebbe comunque per proprio conto, e che in una rincorsa di ascolti, dà luogo alla straripante volgarità di palinsesti che è sotto gli occhi di tutti, che produce noia, propone e determina lâ??assuefazione a modelli negativi, e produce sostanzialmente una tv per anziani relegati in casa che non hanno alternative. E no, mille volte no, a quello che costituisce un tappo per il mercato.
Ho trovato molto interessante quanto dichiarato dal ministro Gasparri: ci sarebbero quaranta aspiranti produttori di contenuti che chiedono di accedere ai canali digitali terrestri, che chiedono cioè di diventare editori televisivi. E altrettanto interessante che al massimo ne vedremo quattro. Sarebbero in grado questi quaranta, come tanti altri che potrebbero avere la stessa vocazione, a cominciare dai gruppi editoriali privati già esistenti, di garantire il pluralismo come e meglio della Rai attuale? Se la risposta a questa domanda è sì, bisogna trarne le conseguenze. E, parlo allo schieramento di centro sinistra, che ha provato sulla sua pelle cosa significhi da parte dei partiti avere in mente unâ??idea proprietaria dei mezzi di comunicazione tv: quando cambia lâ??inquilino di Palazzo Chigi cambia anche la proprietà del palazzo di vetro di viale Mazzini. E se questo qualcuno è anche il proprietario dellâ??altra metà della mela, qualcun altro resta a bocca asciutta.
Dunque: cosa è davvero centrale alla democrazia? Io rispondo: che ci siano molte aziende produttrici di contenuti, e che queste aziende abbiano uguali diritti a trasmettere e che ne ricavino la forza necessaria per raccogliere dal mercato le risorse economiche per produrre profitti, cioè la pubblicità . Qual è stato negli anni il principale ostacolo a che ciò accadesse? La proprietà degli impianti, che è stata saldamente nelle mani dei due soggetti dominanti, che utilizzano, per duopolizzare il mercato, frequenze che sono un bene pubblico avuto in concessione dallo stato. Impianti e frequenze che sono anche un enorme ostacolo allâ??apertura del mercato, visto che la legge ha sempre attribuito priorità nella concessione a trasmettere a chi già aveva gli impianti. Vale a dire a chi aveva fatto incetta di frequenze, occupandole contro la legge o in assenza di legge. Senza contare che il costo dâ??ingresso che ogni operatore dovrebbe pagare per averne dei suoi è molto alto.
E allora, lo stato tenga nelle proprie mani gli impianti - tutti gli impianti - curandone il potenziamento, lâ??aggiornamento tecnologico e la gestione, garantendo parità di accesso a chi ha le caratteristiche per esercitarlo. E, grazie anche alle tecnologie digitali, che moltiplicano le possibilità , liberalizzi i contenuti: lasci che nascano tante aziende quante ne possono vivere sul mercato, tenendo per sé solo quei contenuti che costituiscono il fulcro del servizio pubblico. Lâ??azienda pubblica che gestisce gli impianti sarà senzâ??altro in attivo, visto che sarà la fornitrice unica dellâ??autostrada sulla quale passano le automobili, cioè i canali gestiti dai produttori. Unâ??azienda strategica che sia pubblica nella sostanza e nel controllo. Dâ??altronde per una similitudine con il traffico ferroviario: i binari sono di unâ??unica società , la gestione dei vagoni e dei passeggeri è di una pluralità di soggetti. Tanti produttori potrebbero creare una situazione di effettivo pluralismo come accade nella carta stampata. La Rai con una mission chiara, sarà finalmente libera e responsabile, costretta a confrontarsi non al proprio interno, come oggi avviene, ma allâ??esterno, nel mondo della concorrenza vera. E noi anche saremo finalmente in un paese diverso da ora, dove lâ??alternativa al Grande Fratello non sarà solo lâ??Isola dei famosi.
Certamente per sciogliere questo nodo giuridico, essendo i politici gli artefici della legge e anche i proprietari della Rai, sono loro a decidere se vogliono cambiare davvero le cose oppure aspettare il prossimo turno, sperando che cambi lâ??inquilino di Palazzo Chigi e, nel frattempo, lamentandosi vistosamente.
P.S.: ho letto un articolo di Carlo Rognoni che ripropone la separazione di impianti e contenuti, sulla quale concordo, ma insiste sulla privatizzazione della società che gestisce gli impianti. Poiché non è un dogma della fede, sarebbe opportuno che spiegasse perché gli impianti non costituiscono un bene strategico ed è meglio cederli ai privati, tenendosi invece Affari Tuoi.