di Gianni MinĂ
La notizia dell’eccidio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin mi arrivò dietro le quinte del concertone organizzato domenica 20 marzo ’94 davanti la Basilica di San Giovanni in Laterano dalle forze progressiste che si preparavano alla consultazione elettorale del 27 e 28.
La prima consultazione che avrebbe segnato la vittoria di Berlusconi e di Forza Italia e quindi ribadito la continuità di questa presunta novità politica con il passato inquietante della cosiddetta Seconda Repubblica, dalla quale si credeva l’Italia volesse prendere le distanze.
Quella notizia di un assassinio apparentemente senza senso, legata alla piaga della malacooperazione italiana con i paesi del continente africano, sembrò infatti un segnale sinistro di un passato che non era finito e di un domani che non sarebbe cambiato.
Non conoscevo personalmente Ilaria e Hrovatin. Avevo già apprezzato, tuttavia, come collega maturo, il lavoro della Alpi che, ben presto, avrei saputo essere capace di raccontare con tanta sensibilità il mondo islamico perché, come fanno i giornalisti di razza in certe occasioni, aveva impiegato il suo tempo per laurearsi in lingua araba all’Università del Cairo invece di fare subito la cronista embedded su un tank o su un camion di una delle tante armate di occupazione delle nazioni forti che vanno a saccheggiare le ricchezze dei paesi del Sud del mondo.
La comunicazione, però, è un magistero complicato. Non ero sicuro che una piazza traboccante di mezzo milione di ragazzi, venuti per far festa a un modello politico che cercava unità e un po’ d’allegria, avrebbe saputo adeguare i propri umori alla tristezza improvvisa che l’assassinio di due connazionali impegnati nella ricerca della verità sui traffici di rifiuti tossici e di armi della nostra malefica «cooperazione» con la Somalia avrebbe richiesto, o meglio imposto.
Così presi per mano Piero Pelù, il leader dei Litfiba, gruppo allora fra i più amati dalle ultime generazioni, e gli chiesi di uscire con me sul palco, non per cantare, ma per commemorare il coraggio di Ilaria e Miran. Pelù capì il momento.
Uscimmo e io detti la notizia tutta di un fiato. Sulla piazza che ha visto, negli anni, tanti artisti della musica popolare moderna invocare la speranza, il rispetto dei diritti di tutti, la solidarietà, calò un silenzio assordante.
Allora chiesi di ricordare con un gesto qualunque il sacrificio di due giornalisti che l’informazione non la subivano acriticamente, ma andavano a cercare la verità anche quando era scabrosa, nei posti dove si poteva trovare e documentare.
Due colleghi che non avevano tradito il loro mestiere, come è di moda sempre più spesso in un universo informativo dove l’apparenza – l’interesse del più forte – è ormai più importante della realtà.
Piazza San Giovanni rispose a quell’invito con un applauso lunghissimo, commovente, di rispetto, anche se la maggior parte non conosceva Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, perché i ragazzi i telegiornali, anche quei pochi credibili come il Tg3, li guardano poco, o distrattamente.
Dopo pochi giorni le salme di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin tornarono in Italia, accompagnati subito dalle bugie di Stato, che Luciana e Giorgio, gli intrepidi genitori di Ilaria, dovettero immediatamente imparare a decifrare per dar corpo a quello che è diventato il loro unico obiettivo nella vita: la verità sulla morte della figlia.
Per essere sinceri, in questi quindici anni, le istituzioni non li hanno molto aiutati. Hanno lavorato di più per chiarire questo vero e proprio scandalo politico alcuni colleghi, come Maurizio Torrealta (ora a Rai News 24), o tre giornalisti di Famiglia Cristiana come Barbara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari, e un’indomabile parlamentare di quello che allora era il Pds, Mariangela Gritta Grainer. Con loro tanti organismi della società civile, la cui attività consapevole ed appassionata ha obbligato il mondo politico a istruire una Commissione parlamentare sul caso Alpi (anche se ben presto fallita nel suo compito, per l’ambigua gestione del presidente designato, l’avvocato Carlo Taormina, una volta difensore di Soccorso Rosso e più recentemente di Berlusconi). Ed un avvocato di incrollabile etica, Domenico d’Amati, capace di svegliare più volte dal suo torpore endemico la Procura di Roma, non a caso definita il «Porto delle nebbie».
In verità un magistrato, Giuseppe Pititto, era arrivato all’inizio vicino a una ricostruzione credibile dei fatti e di alcune responsabilità. Dal ruolo ambiguo svolto dal faccendiere italiano Giancarlo Marocchino, all’inefficacia degli agenti dei servizi segreti italiani – una dozzina – che lavoravano all’epoca in Somalia, e che avevano segnalato al loro capo, il colonnello Luca Rajola Pescarini, il pericolo che correvano i due giornalisti del Tg3 che cercavano prove sui traffici illegali di rifiuti tossici e armi in piedi fra l'Italia e la Somalia. Ma il pubblico ministero Pititto fu subito esautorato dall’indagine con la scusa consueta, in un paese che non sopporta i magistrati indipendenti, «di aver creato un clima di mancanza di lealtà e spirito di collaborazione nei rapporti con il Procuratore di Roma».
Anni dopo, nel processo svoltosi a Roma contro Omar Hashi Assan, uno dei presunti componenti del commando da cui sarebbe uscito quel giorno a Mogadiscio il killer che freddò, con un colpo alla nuca, Ilaria e Miran, proprio il colonnello Luca Rajola Pescarini avrebbe rischiato l’incriminazione per falsa testimonianza.
Questo per ricordare quale è stato il clima che, fin dall’inizio, ha accompagnato il tentativo di far luce su questa scabrosa vicenda.
Una storiaccia, di quelle che fanno vergogna a uno Stato che conservi ancora uno straccio di etica. Perché l’esecuzione di Ilaria e Miran fu richiesta, ormai è più che mai palese, proprio dall’Italia, dove c’era una società che, chissà perché, amministrava come qualcosa di personale il traffico di cinque navi per la pesca, donate dal governo italiano al tempo di Craxi al dittatore somalo Siad Barre. Il fatto strano è che questa piccola flotta, mentre frequentava i porti del commercio ittico, toccava sistematicamente anche quelli in cui viene praticato, più o meno palesemente, il traffico d’armi. Magari con la copertura dei nostri servizi di intelligence.
Mi resi conto di questo stato delle cose quando, quattro anni dopo, nell’estate del ’98, decisi di imbastire una delle puntate del programma Storie (l’ultimo che mi hanno permesso di fare alla Rai) con i genitori di Ilaria, indomabili nella loro richiesta di giustizia.
Un filmato che mi aveva passato la televisione svizzera e che era stato girato pochi secondi dopo l’eccidio aveva una volta di più smentito la versione dei fatti sostenuta in una lettera alla famiglia, invitata all’epoca (e senza che fosse stata richiesta) dal comandante del Corpo di spedizione italiano in Somalia , Carmine Fiore.
Al contrario di quello che scriveva l’alto ufficiale, le immagini confermavano che:
1. Il primo ad arrivare sul luogo dell’eccidio era stato il faccendiere italiano Giancarlo Marocchino, collaboratore dei nostri servizi segreti in quella Somalia disperata e senza legge, e non qualcuno dei militari acquartierati sull'incrociatore Garibaldi.
2. Era stato lo stesso Marocchino a trasferire i corpi di Ilaria e Miran dal furgone pickup dove erano stati colpiti a una jeep di sua proprietà, dopo un tesissimo scambio di battute al radiotelefono con qualcuno che si rifiutava di intervenire e che lo spingeva a commentare, alla fine del colloquio carpito dal microfono della cinepresa dell’operatore svizzero: «Quei bastardi non vengono, hanno paura». I bastardi erano evidentemente i militari del Corpo di spedizione italiano, ai quali lo stesso Marocchino, subito dopo, sarebbe andato a consegnare il suo tragico carico al porto vecchio, dove finalmente era in arrivo un elicottero delle nostre forze armate.
3. A Ilaria Alpi, nel momento dell’intervento di Marocchino, come confermano le immagini, colava sangue dal naso. Un dettaglio che segnala come il suo cuore pompasse ancora sangue e quindi, pur con sicuri danni cerebrali, la giornalista fosse ancora viva.
4. Sulla Garibaldi sarebbe stato fatto un esame dei corpi, sicuramente fondamentale per stabilire i particolari della morte, ma del quale il generale Fiore non avrebbe fatto nessun cenno nella sua lettera. Di quell’esame i genitori di Ilaria sarebbero venuti a conoscenza solo parecchi anni dopo.
5. Le scarne notizie della lettera del generale Fiore erano comunque quasi tutte inesatte, tanto che Luciana e Giorgio Alpi non avrebbero partecipato al riconoscimento della salma al suo arrivo in Italia, perché era stato loro preannunciato che la figlia era sfigurata dalle pallottole, mentre invece il colpo mortale era stato uno solo e alla nuca.
L’enormità e la crudeltà di queste bugie sollecita ancora adesso una domanda fondamentale: che interesse possono avere certe istituzioni dello Stato italiano a coprire simili efferatezze?
In nome di cosa lo fanno? Quali realtà il cittadino della Repubblica italiana non deve sapere?
Il generale Fiore, un napoletano che sembra uscito da una pièce di Eduardo, mi telefonò il giorno dopo la trasmissione, fornendomi la risposta.
Dolente per la figura che, a suo dire, gli avrei fatto fare con i figli, mi aveva chiamato per esprimere la sua delusione dopo avermi tanto ammirato, testuale, «per i miei documentari su Dieguccio Maratona».
In risposta ai suoi argomenti chiesi soltanto se avevo sostenuto qualcosa di incorretto. Ammise di no, ma aggiunse: «Lei non sa quanto è difficile, complicato il nostro lavoro quando siamo sollecitati dall’alto». Gli espressi tutta la comprensione possibile, ma gli ricordai che non era colpa mia se, per servire la patria, oggi si è costretti a mentire.
In studio Luciana e Giorgio Alpi ripercorrevano, in quel torrido luglio del ’98, le tappe della loro infinita amarezza finché, alla fine di un filmato sul ritorno a casa delle salme, Luciana si accorse che i bagagli di Ilaria e Miran, nello scalo di Luxor, in Egitto, dove l’aereo di linea era stato sostituito da un velivolo della nostra Aeronautica militare, erano legati e saldati con la ceralacca, mentre all’arrivo a Ciampino la corda che li imbrigliava era sparita.
Per caso due operatori diversi avevano diretto gli obiettivi delle loro telecamere sulle valigie mentre queste venivano scaricate. Solo l’angoscia di una madre poteva cogliere quel dettaglio così importante e inquietante.
Sull’aereo, infatti, oltre ai militari dell’Aeronautica c’erano ufficiali del corpo di spedizione in Somalia, agenti dei servizi segreti, funzionari del nostro ministero degli Esteri e dirigenti della Rai.
Chi aveva avuta l’ardire, durante il volo, di aprire quelle borse, quei pacchi, e perché? Forse per far sparire i taccuini di Ilaria o alcune cassette di Miran?
Chi aveva voluto inquinare quei reperti che solo il magistrato scelto per indagare sull’eccidio avrebbe avuto la facoltà di analizzare, di controllare?
E perché tutto questo era potuto accadere senza che nessuno dei cosiddetti servitori dello Stato presenti sull’aereo lo denunciasse?
Quale era il segreto di Stato che dovevano coprire?
La storia della ricerca della verità sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è zeppa di queste contraddizioni, di queste violenze. Basta ricordarne alcune.
Proprio il colonnello Luca Rajola Pescarini, promosso generale dopo l’esauriente lavoro fatto in Somalia, fu successivamente assegnato al servizio di sicurezza di Palazzo Chigi.
E, per quanto riguarda i metodi usati per disperdere le prove, basta ricordare che tre funzionari della Digos di Udine, dopo essersi imbattuti in una «gola profonda» somala che aveva cominciato a raccontare una verità degna d’attenzione, dopo aver trasmesso copia del loro lavoro a Roma sono stati divisi e dispersi nei loro incarichi, senza nessuna spiegazione plausibile.
Chi, in questa melma, è riuscito a non far annegare le speranze di Luciana e Giorgio Alpi è l’avvocato Domenico d’Amati, che ha accettato l’incarico ormai quasi dieci anni fa con tutta la passione della quale è capace un uomo di legge che abbia etica.
Le speranze sono rinate dopo la perizia effettuata sul sangue rinvenuto sui sedili del pickup Toyota. E' l'auto che la Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Carlo Taormina aveva fatto giungere, anni dopo, dalla Somalia, con la collaborazione di Giancarlo Marocchino, presentando il veicolo come quello dove Ilaria e Miran avevano subìto l’agguato. Ma, per scorno dello stesso professor Taormina, l’analisi comparativa del Dna con quella di Giorgio e Luciana Alpi, disposta dal giudice Cersosimo, e che la maggioranza della Commissione parlamentare d’inchiesta invece non aveva voluto compiere, ha dimostrato che le tracce di sangue rinvenute sul pickup appartenevano a una persona sì di sesso femminile, ma non a Ilaria Alpi.
Per questo, dopo che per l’ennesima volta il caso Alpi ha rischiato di impantanarsi nel «Porto delle nebbie», ora c’è la speranza che l’ordinanza di prosecuzione delle indagini, con la quale il giudice Emanuele Cersosimo ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura della Repubblica di Roma il 2 dicembre 2007, produca frutti.
«Dove sono finiti i 1.400 miliardi della cooperazione italiana con l’Africa?» aveva scritto Ilaria prima di partire per quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio.
Il giudice Cersosimo, ricostruendo la vicenda, afferma che quella dell'omicidio su commissione, posto in essere per impedire che fossero divulgate le notizie raccolte dalla Alpi e da Hrovatin per quanto riguarda i traffici tra Italia e Somalia di armi e rifiuti tossici, è ipotesi suffragata da indizi più che consistenti.
Speriamo che, ancora una volta, quel mondo indegno che finora ha boicottato la ricerca della verità, non riesca ancora nel suo intento perverso e questo grazie anche al Premio Ilaria Alpi, che continua nella sua opera di incessante divulgazione di questa ennesima storia inquietante della società italiana.