di Alessandro Cardulli
“Con me a quel tavolo c’erano i miei colleghi, allora colonnelli, Vitaliano e Gargiulo. Insieme a loro operavo nel reparto di via Selci. Eravamo nel salone della nostra mensa, che frequentavo come tutti i carabinieri. Con noi, degli ospiti con i quali avevamo rapporti stretti rapporti di lavoro, Dalla magistratura eravamo, di fatto, dipendenti, usava le nostre competenze, la nostra professionalità. Gli ospiti erano Antonio Di Pietro, Bruno Contrada e un suo collaboratore, Del Vecchio. Niente di particolare. Con loro avevamo frequentazioni. Certo, il ricordo è un po’ sbiadito. Sono passati tanti anni da quel 14 dicembre del 1992”.
Il nostro interlocutore si ferma un attimo, sorride. “Se avessi saputo che quella cena sarebbe diventata una ‘spy story’, un cumulo di presunti intrighi internazionali, chiamando in causa servizi segreti, trame e piani inconfessabili, avrei portato un registratore, di quelli che usavano una volta”. Parla così l’allora colonnello dei carabinieri, Matteo Conforti, oggi generale in pensione.
Dunque, ci racconti come nacque l’incontro a mensa di cui sono comparse quelle foto messe in giro da un ex collaboratore accusato, anche se non in modo esplicito, di essere il tessitore di trame e complotti.
Francamente sono stupito che un grande giornale come il Corriere della Sera abbia usato come uno scoop una normale cena. Sono altrettanto stupito del chiasso che se ne sta facendo, quasi non avessimo altri ben più gravi problemi di cui occuparci. Era una tradizione del reparto invitare a cena delle persone con cui avevamo rapporti professionali, così come spesso incontravamo, non in via ufficiale, i magistrati della Procura di Roma che allora erano una cinquantina. Ci facevamo gli auguri di Natale ed era un’occasione per scambiarci impressioni, parlare delle cose che interessavano i rispettivi compiti.
Ma perché proprio Di Pietro e Contrada. Nono avevate avuto sentore della bufera che avrebbe colpito il questore, uno dei vicecapi del Sisde, finito poco dopo in carcere. E perché Di Pietro, voi a Roma, lui a Milano?
Niente di segreto. Niente di combinato, quasi qualcuno ci avesse suggerito di mettere i due personaggi seduti al solito tavolo. Mentre si cena o si pranza, magari ci si lascia andare a qualche confidenza. No, niente di tutto questo. Fra l’altro non avevamo portate speciali, da grandi ristoranti. Abbiamo consumato il normale pasto della mensa. Io comandavo la sezione che si occupava di reati contro il patrimonio e collaboravo con la sezione reati contro la pubblica amministrazione. I miei colleghi si occupavano invece di reati contro la persona, furti, lotta al traffico di droga, alla criminalità organizzata. Prima di tangentopoli i reati contro la pubblica amministrazione avevano poco rilievo, qualche truffa all’Inps. Con tangentopoli, però, cambia tutto. Di Pietro si trova a Roma a volte anche quattro giorni a settimana. Noi svolgevamo indagini a tutto campo e da Roma arrivavamo in campo nazionale. Ripeto niente di segreto. Eravamo obbligati per legge a inviare informative sulle nostre indagini, sia al magistrato sia alle alte gerarchie dei carabinieri, i nostri superiori che poi le facevano pervenire ai ministeri interessati. Nelle informative dovevamo dire anche chi ci aveva dato l’input per dare il via alle nostre iniziative. Se, per esempio, l’input veniva dal Sisde dovevamo renderlo noto
Perché proprio voi, perché questi nuclei di carabinieri romani si occupavano di cose che andavano oltre i vostri confini? E poi, ripeto, che c’entrava Contrada?
Rispondo subito. Il questore aveva l’ufficio davanti alla nostra sede. Era un nostro dirimpettaio. Era logico che ci conoscessimo. Ma noi avevamo con lui rapporti di lavoro. Con lui si pedalava, così come con Di Pietro. Per me era una persona specchiata. E certamente chi indagava su di lui, com’è ovvio, non lasciava trapelare niente. Per questo lo abbiamo invitato. Contrada ci forniva tante notizie che a lui arrivavano dai collaboratori, da confidenti. Ci forniva le “notizie criminis”, per esempio sul traffico di droga dalla Colombia. Noi poi svolgevamo indagini, cercavamo riscontri, pedinamenti e contatti, prima di passare al magistrato. Ci ritenevamo e ci ritenevano piuttosto agguerriti, usavamo tecniche investigative all’avanguardia, eravamo, in campo nazionale e non solo, reparti all’avanguardia. Capito perché un rapporto importante e una collaborazione trasparente con Di Pietro e con Contrada, tanto da invitarli per far loro gli auguri di Natale?
A quel tavolo della mensa, affollata di carabinieri, ricorda di cosa avete parlato e quali problemi sono stati al centro della vostra conversazione? Non vi sarete fatti soltanto i reciproci auguri…
Quando lei pranza o cena con suoi colleghi giornalisti di che parlate? Sono certo che il discorso finisce sempre lì, al vostro lavoro, all’informazione. Abbiamo parlato genericamente delle nostre attività, delle difficoltà, dei problemi da affrontare e dei risultati da conseguire al servizio dello Stato. Niente altro. Di Pietro, impegnato nelle indagini su “Mani Pulite”, non ha certo dato conto di quello che faceva a Contrada e, ovviamente, neppure noi. Lo stesso vicecapo del Sisde non è entrato nel merito dell’attività dei servizi. La discussione si è sempre mantenuta ad un livello accademico, non nei particolari che non interessavano a nessuno. A ciascuno il suo mestiere. Per noi è una regola.
Che significa questo richiamo alle regole? C’è una specie di manuale che voi carabinieri, quando vi trovate con magistrati, funzionari dei servizi, dovete seguire?
Niente di tutto questo. Non si faccia venir sospetti. Credo che se si affrontano particolari delle indagini, se si entra nel merito, a discuterne in tre è già troppo. Bisognerebbe star da soli. Meno siamo, meglio è. Queste cene, questi incontri, non hanno mai avuto segreti. Anzi, si sono svolti alla luce del sole.
Generale, in due parole ci può dire la sua impressione su tutto quanto sta avvenendo e sul chiasso sollevato?
Due sole parole? Una bufala.