di Vittorio Emiliani*
«Conservare, rafforzare, migliorare sempre di più lâ??attività di servizio pubblico, nei contenuti editoriali e culturali, nellâ??informazione, nello stile, in linea con le indicazioni dellâ??Unione Europea sui servizi pubblici radiotelevisivi». Lâ??esortazione rivolta dal presidente Ciampi a chi amministra la Rai e la dequalifica, a chi dovrebbe tutelarla e nemmeno ci prova, e, naturalmente, a chi ci lavora, cade nel momento forse più basso (ma di peggio si può sempre fare, penserà il ministro Gasparri) del pluralismo politico-culturale-editoriale.
Un momento nel quale due Tg nazionali su tre, troppi Tg regionali (quello del Lazio è un bollettino di Storace), Televideo, i radiogiornali sono feudi del governo. Per cui tirano a non dare o a dare nel modo più sfumato le notizie spiacevoli per Berlusconi, a montare come panna quelle gradite e, in generale, a dipingere in rosa tutta la realtà italiana. Le cifre sulla criminalità ci dicono, crudamente, che la sicurezza in Italia è nettamente peggiorata dal 2001 ad oggi, con una netta ripresa degli omicidi volontari, delle rapine, delle estorsioni, ecc. Ma per alcune testate della Rai tutta la criminalità si concentra in Campania, a Napoli. Il resto lo si può pure occultare, o sfumare. In Padania soprattutto.
Nel 2001 fu il cavallo di battaglia elettorale di Berlusconi e dei suoi. Le cifre dicevano, allora, che negli anni di governo dell'Ulivo criminalità e violenza erano state combattute con efficacia. Ma il centrosinistra non seppe reagire adeguatamente ad una campagna mediatica che invece descriveva unâ??Italia allo sbando, in preda a bande di extra-comunitari (poi, spesso, si scopriva che, quando c'erano, erano composte da lombardi, da veneti, ecc.), precipitato dai governi ulivisti in un gorgo di insicurezza. Era ampiamente falso, ma la reazione a questo attacco fu debole. In Rai câ??era un Tg in particolare, il Tg2 di Clemente J. Mimun (oggi alla guida, non per caso, del Tg1), che faceva una informazione grondante sangue. Alle contestazioni fattuali (ricordate il â??sonoroâ? dimenticato di Berlusconi sul delitto Dâ??Antona «regolamento di conti nella sinistra»?) rispondeva in modo nervoso e arrogante. Ma cosa vuol dire «fare servizio pubblico»? Vuol dire, secondo il modello anglosassone (insuperato, nonostante le polemiche scatenate contro Bbc la quale avrebbe dato notizie â??esagerateâ? sullâ??Iraq...), produrre una informazione e un approfondimento realmente, ostinatamente pluralisti. Vuol dire produrre film, telefilm e fiction di qualità (ricordate «Perlasca», «La meglio gioventù» o «Montalbano»?), programmi culturali di livello e insieme spettacolari, programmi di intrattenimento con una cifra costante di eleganza e di gusto (rammentate Celentano, o Baglioni?), programmi di satira importanti, e così via. Nella Rai attuale - sottolineato che la satira è ormai un genere scomparso - i programmi di approfondimento, a parte «Ballarò», «Primo piano» e poco altro, offrono il diluviale Bruno Vespa e quel «Punto e a capo» che per settarismo riesce talora a far rimpiangere Antonio Socci, con ascolti in prima serata sotto l'8 per cento. Una Rai precipitata così in basso che i suoi ascolti elevati li fa soltanto con prodotti creati anni fa come «Un medico in famiglia» o con format che nulla hanno a che fare col servizio pubblico: «Affari tuoi» o «Lâ??isola dei famosi». Che su Mediaset starebbero benissimo. E invece lâ??emittente berlusconiana può vantare una fiction come quella sul giudice Borsellino, che una volta la Rai avrebbe prodotto tempestivamente, e la grande musica trasmessa alla domenica mattina, mentre la Rai, dimenticando di avere ancora una sua validissima orchestra sinfonica, lâ??ha buttata in una qualche discarica notturna. Come «Prima della prima». Come capita spesso pure a Rai Educational. Un suicidio in tutti i sensi, visto che il canone dà ancora a questa Rai oltre il 55 % delle sue entrate. Il direttore generale Flavio Cattaneo - il solo a contare ormai in una azienda decapitata, da oltre nove mesi, del suo presidente, con 4 ubbidientissimi consiglieri sopravvissuti - vanta i buoni conti aziendali e allora il ministro Gasparri si prepara a lasciare invariato il canone. Del resto, perché aumentarlo se i programmi di servizio pubblico sono una assoluta rarità su Raiuno e Raidue? Si doveva, da tempo, procedere alla separazione contabile fra programmi finanziati dal canone, cioè dagli abbonati, segnalandoli con un bollino blu, e programmi pagati dalla pubblicità . Ã? stato un errore non farlo, tempo fa. Ma, anche ai tempi dellâ??Ulivo, il canone - che in tutta la civile Europa fornisce alle radiotelevisioni pubbliche almeno il 70-75 % delle entrate garantendole dalla commercializzazione - era considerato quasi un reperto archeologico. Idee confuse, nate da quel provincialismo dal quale Ciampi esorta tutti ad uscire. Così come esorta in generale i giornalisti «a tenere la schiena dritta». Giusto incitamento anche questo. Ma la Rai, a differenza delle altre consorelle europee, non gode di due garanzie costitutive : 1) un canone elevato (il nostro è il più basso e il più evaso d'Europa) per assicurare il servizio pubblico ; 2) un organismo sovraordinato capace di difenderne attivamente il pluralismo, una Fondazione tipo Bbc o un Consiglio Superiore dellâ??Audiovisivo alla francese, al quale concorre anche lâ??Eliseo, direttamente. Siamo lontanissimi da tutto ciò e s'avanza una finta privatizzazione che renderà la Rai ancora più centauro o ircocervo, strattonata fra servizio pubblico e profitto commerciale privato. Perché, questo è il punto, la Rai deve rimanere nella palude fangosa di oggi e non dare fastidio, come â??poloâ? privato, al gruppo del presidente del Consiglio, che con la legge Gasparri incetterà una massa di spot enorme. Nonostante la severa condanna dell'Antitrust. Questi sono i problemi strutturali della radiotelevisione pubblica. E su di essi non ci si può, non ci si deve rassegnare. Mai.
da "l'Unità " - 14 dicembre 2004