di Beppe Lopez*
I 28 mila “aspiranti lettori che hanno sottoscritto l’abbonamento prima ancora di giudicare il prodotto” (rispetto a un break-even di 10-15 mila copie), la decisione di “rinunciare tout court ai finanziamenti pubblici” e “norme statutarie che rendono vincolanti i pareri dei giornalisti-azionisti su scelte importanti come la nomina del direttore”. Sono questi gli elementi più qualificanti dell’impresa editoriale che porterà in edicola dal 23 settembre un nuovo quotidiano, Il Fatto, diretto da Antonio Padellaro. Elementi che giustificano da un canto l’aspettativa di una testata nazionale di opinione capace di sottrarsi al fatale destino di molte di quelle che l’hanno preceduta (la chiusura o la stentata, marginale quando non inessenziale sopravvivenza) e dall’altro il suo primario obiettivo dell’autonomia da qualsiasi potere politico ed economico-finanziario e, ragionevolmente, dai condizionamenti dei principi e dei padroni che sovrintendono al mercato pubblicitario. Il fatto, poi, che a questo quotidiano lavoreranno e daranno il contributo della propria professionalità e del proprio prestigio “nomi” come Marco Travaglio, Furio Colombo e Peter Gomez dà indubbia concretezza a quell’aspettativa e a quell’obiettivo.
Dal punto di vista dei lettori e dei cittadini, la qualità più importante del Fatto (16 pagine, 6 giorni di uscita, 1 euro 20 centesimi di costo) riguarda la sua esplicita collocazione politica e civile, peraltro legittimata e garantita dall’inequivocabile curriculum del suo direttore e della squadra di redattori e di opinionisti messa insieme. “La stampa è sotto assedio, sottoposta all’artiglieria pesante di Silvio Berlusconi”, afferma Padellaro, e “proprio per questo serve una reazione civile dei giornalisti che credono nella libertà di stampa”.
Detto questo - e volendo fare ciò che Furio Colombo anticipa che vuole fare proprio Il Fatto (“analisi logiche e non morali”) - è naturale porsi subito due domande: il sistema informativo italiano aveva proprio bisogno di una nuova testata nazionale di opinione? C’è spazio e bisogno, a sinistra, di un nuovo quotidiano?
Cominciamo da questa seconda questione. A parte la Repubblica – oggettivamente “di centrosinistra”, ma altrettanto indubbiamente appartenente alla sfera dei grandi gruppi editoriali oligopolisti (e proprietà di un grande finanziere) – in edicola o comunque nelle rassegne stampa ci sono già almeno altre sette testate che occorre tenere presenti: l’Unità, il Manifesto, Liberazione, Europa, Terra, l’Altro e lo stesso Riformista. Di queste, evidentemente, tre o quattro è come se non esistessero, tale è la loro effettiva inconsistenza: ma esistono. Con il Riformista, evidentemente, la sovrapponibilità di lettorato dovrebbe essere minima: anzi, per molti aspetti (tanto per cominciare su Berlusconi e il berlusconismo), il giornale di Padellaro-Travaglio si preannuncia in netta contrapposizione con quello di Polito, proprietà degli Angelucci (boss della sanità privata) e fiancheggiatore da destra del dalemismo. Ma un minimo di sovrapponibilità editoriale permane.
Sovrapponibilità (e concorrenza) che appare invece consistente – specie in termini di lettorato – sia con l’Unità sia, soprattutto, con il Manifesto. E, si dovrebbe aggiungere, con la stessa Repubblica. Nell’area di diffusione di queste tre testate l’antiberlusconismo, cifra decisiva del Fatto, è uno stato d’animo e una motivazione fortemente diffusi. Non a caso, nel Fatto sbarca un pezzo importante della squadra che negli anni scorsi ha dato una rinnovata connotazione al quotidiano fondato da Antonio Gramsci (i due ex-direttori Colombo e Padellaro, l’articolista Travaglio, persino l’ex-amministratore delegato Giorgio Poidomani). Per quello che riguarda Repubblica, è appena il caso di rilevare le centinaia di paginate e le “campagne” da essa condotte contro Berlusconi negli ultimi tempi. Il formidabile e velenoso contrasto opposto proprio contro “il giornale di De Benedetti” dal centrodestra e da Berlusconi in prima persona ha schiacciato il giornale diretto da Ezio Mauro - probabilmente al di là delle intenzioni editoriali e certamente delle consolidate ambizioni di “uno dei due più importanti giornali italiani” – sul ruolo di portabandiera del fronte anti-berlusconiano. Del resto, è significativo della presenza storica, nel gruppo Repubblica-Espresso, di umori e valori analoghi a quelli attribuibili all’area cui è votato Il Fatto il (coraggioso) passaggio da quel settimanale al nuovo quotidiano di due firme come Gomez e Marco Lillo. Per tacere naturalmente dello scalfarismo, del d’avanzismo e della provenienza dello stesso Padellaro dalla “scuola” di via Po (e di Travaglio dalle colonne di quel magazine).
Insomma, se tutto andrà come i suoi promotori si augurano, si può dire che Il Fatto, con un lettorato potenziale di base abbondantemente identificabile nell’area dei fans di Travaglio (e di Gomez), di Padellaro (e di Colombo) e dell’elettorato dipietresco, potrebbe attingere alla grande area di Repubblica, rubare qualcosa (o molto) all’Unità e andare a caccia anche (se non soprattutto) nella tradizionale riserva del Manifesto.
Allora: c’è spazio e bisogno, a sinistra, di un nuovo quotidiano? Lo spazio, in teoria, non ci sarebbe. E ne vedremo delle belle. Invece il discorso “bisogno” - non soddisfatto dalle testate inessenziali, né dal giornale di Polito-Angelucci, né dal “giornale di partito” diretto di Concita Di Gregorio, né dal transatlantico editorial-finanziario di largo Fochetti (“Nessuno di noi”, rivendica Colombo, “viene da passati politici da affermare o rinnegare continuamente e neanche abbiamo fatto parte di gruppi anche molto per bene) – incoccia direttamente l’esistenza del quotidiano cooperativo di Valentino Parlato. Certo, qui la valenza politica di appartenenza (“comunista”) è molto forte, al contrario che nel Fatto. Ma il Manifesto è l’univo vero giornale indipendente esistente non solo a sinistra, pur avendo bisogno e difendendo con le unghie e con i denti la propria porzione di finanziamento pubblico.
E’ attorno a questa testata – se si esclude il “popolo dell’Unità” o meglio quello che fu il “popolo dell’Unità” – che esiste da decenni un consolidato lettorato di sinistra. Il Fatto non sarà “di sinistra”? Avrà un taglio completamente diverso dal Manifesto, che non ha rinunciato negli anni a una certa severità di toni e la cui cultura è oggettivamente segnata da una certa autoreferenzialità? Staremo a vedere. Ma una cosa si può forse dire: se Il Fatto metterà radici, inevitabilmente esse si intrecceranno a quelle più antiche del Manifesto.
E passiamo all’altro corno: il sistema informativo italiano aveva proprio bisogno di una nuova testata nazionale di opinione? Qui la risposta deve essere inequivocabile: no.
Contrariamente agli altri paesi occidentali, dove esiste da sempre una offerta differenziata di giornali (nazionali, locali, di qualità, popolari, specializzati…), in Italia abbiamo avuto sino agli anni Settanta un solo tipo di testata: interregionale. E oggi, dopo trent’anni di “modernizzazione”, tendiamo ad avere un solo tipo di giornale, un autentico monstrum, di cui la Repubblica e il Corriere della Sera sono l’avanguardia più consolidata e quasi un modello: un giornale insieme nazionale e locale, di qualità e popolare.
Insomma l’Italia soffre già di una ipertrofia di testate nazionali e – grazie ad una scriteriata, affastellata normativa per i finanziamenti pubblici all’editoria, e ad una loro gestione clientelare e in più casi ai limiti della criminalità - di giornali “di opinione”, romani o milanesi, di Palazzo, di sinistra o di destra o di centro che siano.
Sono nazionali e “d’opinione” i sette che abbiamo già elencato - l’Unità, il Manifesto, Liberazione, Europa, Terra, l’Altro e lo stesso Riformista – e che con Il Fatto diventeranno otto, solo a sinistra. Ad essi si aggiungano: Il Giornale, Libero, Liberal, l’Avvenire e altre innumerevoli testate tutte finanziate dallo Stato (come L’Opinione, Conquiste del Lavoro, ecc.).
Il Fatto è politicamente un evento interessante e, per chi la pensa come i Padellaro e i Travaglio, un evento straordinariamente positivo per la libertà di opinione e per la democrazia in Italia.
Ma, dal punto di vista del vuoto storico – e sempre più drammatico – di cui soffre il sistema informativo italiano, e cioè di giornali “veri”, di giornali legati al territorio (la realtà se non è “locale” che realtà è?), Il Fatto non ci fa fare un solo passo in avanti. Quel vuoto rimane. E con quel vuoto dovrà fare i conti anche Il Fatto.
Una cosa è infatti “fare opinione” sulla base di un’abitudine di massa alla lettura dei giornali d’informazione (oltre che di una libera informazione televisiva), altra è far cadere dall’alto un’azione “formativa” che spesso, al di là delle intenzioni, diventa deformativa. la Repubblica di Scalfari risolse questo problema peggiorando la situazione: inventando un modello di giornale unico (di qualità e popolare, e soprattutto nazionale e locale) che sta portando alla desertificazione dell’informazione regionale e dell’informazione tout court.
Come lo risolverà – non essendoselo posto preventivamente e augurandosi che abbia il tempo di farlo – Il Fatto?
*da Infodem