di Nicola Tranfaglia
L’Italia è un paese a doppio fondo. Chi conosce la storia d’Italia, e quella dell’Italia repubblicana ma anche quella precedente, lo sa bene. Sul piano ufficiale e istituzionale può sembrare un paese perfetto e trasparente ma, se si va oltre, si scoprono tante cose che non funzionano.
Dopo la testimonianza di Massimo Ciancimino, figlio minore di un “padrino” importante quale è stato il padre, che ha governato Palermo prima con Salvo Lima e poi, in posizione di vertice, ci sono elementi importanti che fanno pensare a una trattativa tra lo Stato e la mafia nel periodo critico della repubblica, tra la strage di Capaci (23 maggio 1992) che uccise Falcone e la sua scorta e quella successiva di via d’Amelio, in cui morì Borsellino e la sua scotrta, il 19 luglio dello stesso anno.
Esiste un documento di questa trattativa, sono indicati i personaggi centrali del negoziato e sono chiamati in causa, da una parte, il ministro dell’Interno Mancino e, dall’altra, il colonnello Mori dei Ros a cui i capimafia del momento
(Riina e Provenzano) avrebbero consegnato le richieste dei mafiosi.
Sappiamo che Ciancimino giudicava eccessive quelle richieste, cioè impraticabili, e basta leggere quel documento (di cui aspettiamo ancora l’originale) per rendersene conto: la revisione del maxiprocesso, l’abolizione del carcere duro per i mafiosi (articolo 41 bis), la revisione della legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni e ancora l’estensione ai mafiosi della legislazione sui dissociati già applicata ai terroristi delle Brigate Rosse e di Prima Linea.
Si sarebbe trattato in pratica di riconoscere alla mafia uno status di soggetto politico della repubblica, quello che non si era riconosciuto formalmente alle Brigate Rosse negli anni settanta, e una sorta di pace negoziata di fronte al ricatto della strategia terroristica e stragista adottata con l’eccidio di Capaci dai corleonesi di Cosa Nostra.
Il ricatto, se rifiutato, avrebbe potuto significare la morte di molti politici, sia quelli che avevano tradito perché, dopo aver coabitato per anni con Cosa Nostra, non volevano o potevano più farlo (il caso Lima è il più significativo ma è chiaro che uccidere Lima significava minacciare Andreotti che di Lima era il capo e il protettore) sia quelli che con la mafia non volevano più scendere a patti.
Una simile ricostruzione dei fatti è alla base dell’intervista che il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha fornito subito dopo la consegna del papello ai giudici di Palermo. Grasso ha detto che la trattativa c’è stata e che il ricatto di Cosa Nostra ha funzionato.
Questo significa, se la ricostruzione è attendibile, che il giudice Borsellino è stato ucciso anche perché sapeva della trattativa e vi si opponeva risolutamente. Insomma, una strage in un momento in cui i capi di Cosa Nostra spingevano perché la trattativa andasse avanti e non si fermasse.
Dopo l’intervista di Grasso, che oggi molti tendono ad accantonare, ci sono state le testimonianze a Palermo del generale Mori e dell’onorevole Violante.
Mori, divenuto oggi un personaggio politico di qualche importanza come collaboratore del sindaco Alemanno a Roma e del sindaco Moratti a Milano, ha negato tutto: dice che non aver mai ricevuto il papello e che non ci fu, a sua conoscenza, nessuna trattativa. Non potrebbe fare altrimenti perché, se ammettesse, dovrebbe spiegare per conto di chi trattava, che rapporti aveva con il governo del tempo, a cominciare dal ministro dell’Interno.
Quanto all’onorevole Violante, a quel tempo presidente della commissione Antimafia, ricorda di aver rifiutato, subito dopo l’uccisione di Lima nel marzo 1992, un incontro riservato (con la mediazione di Mori) con Ciancimino che era allora una sorta di ambasciatore dei capi di Cosa Nostra, ma non ha ancora spiegato perché la commissione da lui presieduta ha deliberato il 6 luglio 1993 di ascoltare Ciancimino e poi, successivamente, non l’ha fatto.
Tutti questi elementi che emergono dalla vicenda, a cui si aggiungono quello che dicono in queste settimane vari pentiti, aprono uno scenario che è, dal punto di vista storico, assai significativo.
Se è vero che esisteva una coabitazione, che durava ormai da mezzo secolo tra la mafia e il partito di governo, o meglio parte di esso, non c’è da stupirsi che Cosa Nostra ricattasse quella classe politica e dirigente fino ad arrivare a stendere il papello di richieste. E minacciasse altrimenti la realizzazione di una linea stragista che avrebbe provocato nuove stragi e la decimazione dei politici che occupavano, in quel momento, posizioni di vertice.
Ora si tratta, io credo, di lasciare ai giudici di Palermo il tempo per andare a fondo e svelare quello che l’Italia ufficiale e istituzionale cerca ancora una volta di nascondere agli italiani.
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