di Giorgio Bocca
da L'Espresso
Prima il terrorismo senza confini, poi il diluvio senza Dio. Ma non è il mondo che è cambiato, è la presunzione umana che ha dovuto chinare la testa. Il Dio biblico non segue più il suo popolo, non lo avvisa più che è il tempo di costruire l'Arca, non lo accompagna più passo passo dall'Egitto alla Terra promessa. Tace, non perdona e non accusa. Sembra aver ceduto il campo alla natura feroce e indifferente. Non è cambiato il mondo, dice il sociologo Ulrich Beck, sono cambiati gli uomini, il loro progresso senza controlli, le loro inimicizie senza limiti. Non solo lo tsunami crea onde anomale, la confusione è sovrana, le ambiguità si intrecciano.
Prendiamo l'informazione sul maremoto. Per qualche giorno hanno dominato lo sbigottimento e la pena, poi la politica e le propagande sono ritornate in forza, con le loro strutture dominanti; sugli schermi della televisione sono ricomparsi i giganteschi soldati americani, la forza buona dei ricchi, con in braccio un bambino salvato dalle acque e gradualmente sono ritornate le belle e giovani donne, avvolte in sari colorati, fra le rovine e i pianti sono tornati l'esotismo e il sesso del grande mercato turistico, la way of life occidentale. Il globalismo ha vinto o ha aperto la strada a nuovi integralismi?
L'Occidente e i suoi aiuti hanno fatto crescere la globalità del mondo, hanno superato la separatezza dagli 'altri', dai poveri della Terra, da coloro che non contano o hanno dato forza all'integralismo islamico che imputa la sciagura agli infedeli che rifiutano il regno di Dio?
Vince la solidarietà fra i ricchi e i poveri della Terra, i poveri non sono più 'volgo che nome non ha', ma compagni di sventura, di dolore, di generosità oppure si sono confermati l'egoismo, il saccheggio, l'imprevidenza dei ricchi che hanno tolto alle coste le difese delle mangrovie, riempito le spiaggie di alberghi e villaggi turistici?
Sono dei benefattori o dei pirati gli industriosi connazionali accorsi fra i pescatori indiani a piazzare delle barche di plastica come quelle che galleggiano sul mare piatto di Riccione o di Rimini? Il disastro oceanico è stata una sconfitta del globalismo o una sua vittoria? Ha dimostrato che il mercato globale rappresenta un progresso di tutti o che siamo a una ripetizione, con diverso nome, del vecchio imperialismo?
Di certo si è avuta la conferma che il nostro maggior filosofo è stato il poeta di Recanati che ha guardato a occhi aperti la natura e il fragile destino degli uomini ad essa abbandonati. Il maremoto ha completato la lezione di umiltà dell'11 settembre di Manhattan: non esiste potenza al mondo che si possa dire sicura contro un attacco del terrore, come non esiste una scienza che possa prevedere e contrastare le grandi calamità naturali.
Ne risulta fortemente mutata l'immagine delle grandi nazioni in perdurante competizione per dominare un mondo e una natura più grandi di loro. Tanto più che la scienza a cui affidano il loro benessere e la loro sicurezza sfugge a ogni controllo sicuro, avvelena l'ambiente, semina i suoi effetti collaterali, come li chiamano, che si sperimentano nel corpore vili dei viventi.
Con la strage terroristica di Manhattan e con l'immane disastro del maremoto le presunzioni umane hanno subìto un duro colpo di arresto? La risposta è no. Mentre si bruciano i morti e si scava fra le macerie arrivano già le invocazioni degli indigeni alla ripresa immediata del turismo di massa, le agenzie di viaggio riprendono le loro offerte, turisti 'eroici' presidiano gli impianti rimasti in piedi, la morte di massa in fondo fa meno paura della morte individuale, la dolce morte nel proprio letto è in fondo più dura che quella assieme a migliaia di altri, sotto la grande onda dello tsunami.