di Montesquieu*
Bastano le dita di una mano per contare i fuoriclasse dell’apparato pubblico nazionale e, se vi fosse una gerarchia tra le dita, il dito più importante sarebbe lui, il capo della protezione civile. Non è retorica dire che il paese si sta giocando un uomo tanto importante da essere considerato insostituibile in tutte le occasioni che richiedano qualche capacità organizzativa, oltre che nelle disgrazie.
Se oggi rischiamo di perderlo, a quel livello che ne faceva il commissario straordinario perfino delle altre amministrazioni pubbliche, delle federazioni sportive o degli enti della moda, non è forse tanto o solo per la brutta vicenda che lo chiama in causa, direttamente o indirettamente, e rispetto alla quale è giuridicamente innocente; quanto per quel suo comportamento da sottosegretario qualsiasi, quale è e quale non avrebbe mai dovuto accettare di essere, mezzo politico mezzo burocrate. Con un bel calcio al dogma della distinzione tra responsabilità politica e amministrativa per cui si è dannato il vecchio ministro Bassanini, e che sembra non emozionare il neoministro della funzione pubblica. Il quale offre lezioni di buona amministrazione da un anno e mezzo, e non ha sorprendentemente nulla da dire su una vicenda come questa, che svela un grigio intreccio tra altissimi funzionari e imprenditori vocati all’altrui corruzione. Altro che i demonizzati fannulloni, spesso tali per incapacità organizzativa dei dirigenti,e sempre tali, quanto meno, per scarsa vigilanza dei dirigenti stessi.
A rendere diverso da tutti o quasi gli altri il capo della protezione civile è stato per anni quel riferirsi allo stato come soggetto da servire, con una bella, insolita e ardita presa di distacco dai governi, dai quali pure dipendeva il suo ruolo professionale. Ma era troppo bravo per non servirsene e farsene il fiore all’occhiello. Una rarità, quell’inusuale riferirsi allo stato, che sembra svanita dietro la ricerca di protezione del grande capo del governo, protezione sicura, salvo l’inauspicato precipitare della situazione, almeno fino al giorno non lontano delle elezioni regionali: sempre che sia possibile, insieme, andare sul luogo a raccontare i miracoli dell’Aquila, o quelli dei rifiuti svaniti. Oggi lo stato, quello che consiglia all’uomo pubblico di anteporre la trasparenza alla logica dell’innocenza fino a prova contraria, sembra diventato un riferimento lontano, quasi assente, e compare la rimessione di sé alla volontà del governo e del suo capo, quanto a decidere il da farsi.
Mal consigliato? Probabile. Il governo è lì, ben identificabile nella figura del presidente del consiglio, e della sua indisponibilità, fino all’ultimo, a privarsi dei suoi successi, legati a due calamità, naturali ed umane, e quindi indissolubilmente al capo della protezione civile.
Lo stato, invece, sono i milioni di italiani, di destra, di centro e di sinistra, che lo apprezzano indiscriminatamente, fino ad oggi: e che ancor più lo apprezzerebbero se dimostrasse che la sua distanza dal potere e dalla politica era frutto di convinzione rigorosa, e non un’autodefinizione. Lui,che non ha radici politiche, farebbe bene a non cercarle ora, almeno per difendersi dal cinismo della politica, usa e getta come nessuno.
In quest’Italia in cui le disgrazie non rispettano i tempi della giustizia, delle sue inchieste e dei suoi processi, si richiede al capo della protezione civile una serenità, una disponibilità di tempo almeno pari a quella rivendicata dal capo del governo con il groviglio di leggi che impegnano le camere ben più dell’anacronismo dei regolamenti delle stesse: leggi che non arriveranno, per sua forse non intuita fortuna, a tenerlo al riparo.
Almeno, si spera,perché non si conoscono, fuori dei nostri confini, forme di immunità estese ai congiunti,agli amici e ai collaboratori: e non vorremmo essere noi ad inaugurare anche questa strada.
*da Europa