di Gianfranca Fois
Il cattivo sceriffo di Nottingham, che amministrava la giustizia per conto di Giovanni senza terra, usurpatore del trono di Inghilterra del fratello Riccardo Cuor di leone, indignava profondamente i bambini della fine degli anni cinquanta che si riunivano davanti ai primi apparecchi televisivi per seguire le puntate dei telefilm che avevano come protagonista principale il cavaliere Ivanhoe. Era un’indignazione istintiva, determinata dal naturale senso di giustizia che in genere hanno i bambini, e la visione di uomini incarcerati, strappati alle famiglie e le loro case bruciate faceva nascere nelle menti e nei cuori un senso di ribellione verso chi metteva in essere quelle plateali forme di ingiustizia e verso chi lo manovrava.
Durante gli anni sessanta quegli stessi bambini, divenuti ragazzi, continuarono a provare indignazione ma, questa volta, di fronte a episodi reali che si apprendevano dai giornali, storie di poveri, di emarginati che spesso rubavano per vera e propria fame, condannati a scontare la pena in carcere, mentre i potenti sembravano potersi permettere tutto. Fu quindi guardato con simpatia il pretore Amendola, primo di una serie di pretori chiamati, con malcelata ostilità, pretori d’assalto dai giornali benpensanti dell’epoca. Erano magistrati che cercavano di garantire tutta una serie di tutele di interesse generale come la salute, l’ambiente e il lavoro e che la magistratura, allora nell’orbita del potere politico per provenienza sociale, per formazione culturale e ideologica, non teneva in considerazione.
In parte questo era comprensibile, si trattava di magistrati che avevano cominciato la propria carriera prima o durante il fascismo quando era ancora in vigore lo Statuto Albertino del regno d’Italia che prevedeva limitate garanzie di autonomia alla magistratura, una magistratura a forte struttura gerarchica sottoposta allo stretto controllo del ministro della Giustizia che aveva il potere di emanare provvedimenti disciplinari nei confronti dei giudici, senza contare il fatto che il Pubblico Ministero costituiva il rappresentante dell’Esecutivo, sotto la direzione del Ministro.
Erano tempi in cui dunque i giudici erano fortemente politicizzati e non era raro che passassero a far parte dell’Esecutivo.
Ai giorni nostri grazie alla divisione dei poteri prevista dalla Costituzione antifascista, l’indipendenza della Magistratura è garantita così come è garantita l’indipendenza dell’informazione. E allora forse non è un caso che entrambe siano ora sotto attacco, accomunate ad esempio nel progetto di legge sulle intercettazioni.
Per questo motivo Articolo21 sostiene da tempo la necessità che i magistrati e i giornalisti sottolineino in modo chiaro e senza tentennamenti che le battaglie portate avanti dalle due categorie non sono battaglie corporative, di difesa dei propri privilegi, ma battaglie per i diritti di tutti i cittadini. La politica, la cultura, l’informazione dovrebbero perciò contribuire a far sì che siano chiare e comprensibili non solo le ragioni ideali ma anche i diversi vantaggi per la libertà dei cittadini derivanti dall’autonomia della Magistratura dal potere politico e dall’indipendenza dell’informazione.
Infatti solo una magistratura indipendente può garantire la difesa dei diritti dei cittadini, solo un’informazione autonoma, pluralista può offrire alle persone gli strumenti per comprendere la realtà, può contribuire a creare un’opinione pubblica matura e consapevole, può contribuire a diffondere l’idea di giustizia che sta alla base della Costituzione e cioè l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge e la difesa dei diritti inviolabili della persona.
Quindi insieme magistratura e informazione libere e indipendenti sono garanzie fondamentali, in un paese democratico, di ogni cittadino, sono, o dovrebbero essere, interesse comune di tutti, qualunque sia l’orientamento politico.
In questi anni invece si è deliberatamente portata avanti una campagna tesa a screditare e delegittimare la magistratura, facendo leva, tra l’altro, su un problema reale: la lunghezza dei processi e la mancata certezza della pena.
Ma quanto finora ha fatto (e intende fare) il governo ha invece creato ostacoli che hanno determinato e potranno determinare ulteriore lentezza e inefficienza.
E proprio a questo proposito l’informazione potrebbe giocare un ruolo importante fornendo informazioni corrette, informazioni non parziali che consentano ai lettori e agli ascoltatori di capire quanto sta succedendo. Un solo esempio: da poco si è corso il rischio che dei mafiosi venissero scarcerati per l’applicazione della “ex Cirielli”, ebbene questa notizia è stata data in forma incompleta, presentata quasi come una contraddizione interna alla magistratura e non invece come la conseguenza perversa di una delle leggi “ad personam” fatte approvare dal governo.
Ma di questi tempi non basta la correttezza delle notizie, è necessario che i giornalisti, i cittadini si riapproprino delle parole perché da anni, a fianco ai continui e volgari attacchi di Berlusconi, del governo e della maggioranza, sono presenti nell’informazione, nella comunicazione oltre al rilancio degli attacchi, l’uso di metafore, di campi semantici con valenza negativa che contribuiscono a creare in chi legge e in chi ascolta atteggiamenti ostili alla magistratura (ad esempio oppressione, persecuzione, attivismo della magistratura), e non è un caso perciò che la fiducia nella magistratura cali anno dopo anno da parte dei cittadini mentre proprio la fiducia nei giudici è uno dei fondamenti di uno stato democratico.
Ma soprattutto vengono, non a caso, ripetuti continuamente termini, espressioni ambigue, un esempio per tutti: processo breve che, offerto così, senza spiegazioni, ottiene immediata simpatia dalle persone, infatti chi non vorrebbe un processo breve?
Insomma diventa sempre più urgente che la stampa libera, ma anche gli uomini politici, i partiti, almeno quelli dell’opposizione, riflettano maggiormente e si attrezzino per contrastare questa offensiva linguistica e per ristabilire un linguaggio più razionale, consapevole e diretto.