di Gianni Rossi
L’italianità della FIAT è ormai un sentimento romantico. Come è un retaggio romantico per una certa sinistra pensare ancora al contratto metalmeccanico onnicomprensivo, sena distinzione di settori produttivi tra loro, come se dalla storica FIOM ci si possa attendere ancora un messaggio di salvezza dalla crisi del capitalismo iperliberista, come nel 1917 lo furono i Soviet per la rivoluzione russa. Il caso Fiat non è solo un fatto di scelte di politica industriale o di alleanze tra capitali italiani e statunitensi, tra i due marchi automobilistici più deboli nel mercato globale delle auto, anche se con prodotti e stiling ritenuti di pregio dal mercato. Il futuro del gruppo ex-torinese, e ormai quasi ex-Agnelli, anticipa e preconizza quello che potrebbe accadere al “Sistema Italia”.
Volenti o nolenti è spesso stato così nella storia del nostro paese. Quando la Fiat “marciava” negli anni del boom, il paese ha realizzato la più vasta rete di infrastrutture che ancora oggi reggono, prediligendo la “cura del cemento e dell’asfalto” rispetto a quella del “ferro”, dei trasporti su ferrovia, come invece avveniva nel resto del Nord Europa. Grande inganno, ma anche decisivo impulso alla ripresa economica, industriale e sociale. L’Italia allora entrò tra i primi paesi dell’Occidente nella ricerca avanzata meccanica e chimica, nel designer per arredamento, nella moda, nella progettazione urbanistica e in quella antesignana dei “calcolatori” (Olivetti docet!).
La democrazia sindacale e politica fece dei grossi passi avanti, così come la scolarizzazione di massa. Poi venne il cosiddetto “Autunno caldo” e il vento reazionario della FIAT con la prima crisi ideativa del gruppo. Tra gli anni Settanta e Ottanta, gli Agnelli, dopo aver scoperto il mercato dell’Est con l’Unione Sovietica, facendo da apripista al capitalismo conservatore, firmarono anche una “cambiale di credito” verso il PCI, ormai conquistato al “gioco democratico” occidentale, difensore della NATO e libero dai vincoli della “santa madre Russia comunista”. Fu in parte travolta dalla lunga stagione del terrorismo rosso, ma resistette, grazie anche alla responsabilità democratica del movimento operaio. Durò fino agli inizi degli anni Ottanta, quando ci fu la “marcia dei Quarantamila”, con l’era di Cesare Romiti e la finanziarizzazione del gruppo. La Fiat si estese in qualsiasi mercato, gli aiuti di stato si fecero sentire per respingere i primi colpi del mercato a “qualità totale” delle auto giapponesi. I governi “craxiani” e il sistema “Tangentopoli” intaccarono l’etica eremitica piemontese del Lingotto ancora in mano alla “famiglia reale” Agnelli. Alcuni top manager furono inquisiti e patteggiarono. Nel frattempo, la FIAT era diventata il costruttore monopolista dell’auto italiana, inglobando anche l’Alfa Romeo, il marchio storico più amato all’estero (specie in Germania, negli USA e in Gran Bretagna). Fu uno storico “regalo” dello stato, che passò in pratica a costo zero un “gioiello di famiglia “ (l’Alfa era della Finmeccanica), complici anche i partiti di sinistra, PSI e PCI in testa, e i sindacati (tranne gran parte della CGIL, favorevole al “piano Ford”, in sintonia con il parere avveduto del presidente dell’IRI, Romano Prodi).
La FIAT divenne un gigante nazionale con i piedi d’argilla come “competitor” a livello internazionale e l’Alfa Romeo, così come la Lancia prima, perse stile, identità e appeal sui mercati di pregio e nella fascia delle “gamme superiori”. Dopo Tangentopoli, le crisi sistemiche del capitalismo iperliberista e la fuoriuscita dei vecchi “padri” (Gianni e Umberto Agnelli morti, Romiti e Paolo Cantarella in pensione), la FIAT ha conosciuto il “viale del tramonto” inarrestabile, con avvicendamenti continui al timone di comando, la cura dimagrante di attività non industriali, cessioni di brand, riduzioni di personale, carenza di innovazione nella ricerca tecnologica e nei modelli. Si è rivolta due volte al mercato americano, prima cercando un aiuto finanziario e industriali al colosso GM: matrimonio finito presto e male, ma almeno con qualche boccata di ossigeno in soldi. Quindi, con la crisi del 2008-2009, ecco che il “commercialista filosofo” Marchionne, s’inventa il salvataggio della Chrysler, con l’aiuto finanziario dell’amministrazione Obama e la FIAT si “americanizza”. Intanto, i “rampolli “ della famiglia venivano relegati ai margini delle scelte strategiche: Luca Crodero di Montezemolo prima, John Elkann dopo. La FIAT si “americanizzava” in tutto e per tutto!
Oggi, la FIAT non è uscita dalla crisi, come i suoi competitor tedeschi e giapponesi, ma anzi la situazione produttiva e commerciale in Europa (il principale mercato di vendita, con l’Italia in posizione dominante) si è aggravata. Negli ultimi due anni, anziché proporre nuovi modelli con innovazioni tecnologiche, come stanno facendo i grandi competitor tedeschi e nipponici, tutto lo sforzo manageriale del gruppo americo-italiano è stato rivolto a ridurre gli organici al Sud Italia, chiudere gli impianti ritenuti meno produttivi, come Termini Imerese, giocare la carta della riduzione del costo del lavoro, della scarsa competitività produttiva operaia nella competizione globale, dell’eccessivo peso dei “diritti” sindacali, ormai ritenuti antistorici.Il problema dei problemi per la FIAT di Marchionne, e per un’ala del vertice di Confindustria che gli regge la coda, non è la capacità di produrre e innovare, ma la “forza lavoro”: sono gli operai, il loro sistema di relazioni e garanzie sindacali, il livello retributivo, previdenziale e assistenziale. E’ appunto un “problema etico, filosofico”, affrontato con un approccio ideologico e tutt’al più finanziario.E i miliardi di euro gettati al vento nella finanziarizzazione del gruppo? E le ricche buonuscite del top management? E la posizione di monopolista produttivo in Italia (nei decenni FIAT ha inglobato Lancia, Bianchi, Innocenti, Ferrari, Maserati e Alfa Romeo, nonché temporaneamente anche Piaggio-Gilera, n.d.r.)? E lo scarso “appeal” dei suoi prodotti sul mercato italiano ed europeo?
Il futuro del gruppo ormai è rivolto a Detroit: lì probabilmente verranno spostati i “cervelli creativi”, le innovazioni di prodotto e di produzione; da lì verranno le nuove regole per le relazioni industriali, sulla falsariga del più retrogrado mercato del lavoro esistente al mondo, secondo solo a quello cinese. Più produttività, meno salario, minori garanzie previdenziali, assistenziali e sindacali. Un ritorno ad un passato fatto di “deregulation”, foriero di incognite per le future tensioni sociali dentro e fuori le fabbriche in Italia. Cancellazione del contratto nazionale collettivo a favore di quelli di “fabbrica” e di settore. Fuoriuscita da Federmeccanica e dalla Confindustria per “avere le mani libere”. O lavori come dico io o muori di fame!Incredibile, ma vero: questo il ricatto neo-fordista del capitano d’industria Marchionne, subito fatto proprio da gran parte dei sindacati “berlusconizzati” come CISL e UIL, e dal ministro del lavoro-welfare, l’ ex-craxiano Sacconi; mentre in Germania, Francia e Giappone si praticano strade diverse, innovative. Lì non si intaccano i diritti, ma si aumentano i salari e si apre la gestione societaria all’azionariato dei dipendenti tramite i fondi pensione. Il mercato europeo dell’auto è in forte calo, la quota di penetrazione della FIAT sempre più ridotta e se non ci fossero state dagli anni Novanta in poi le “rottamazioni”, gli incentivi fiscali governativi, la FIAT, come in parte anche le altre marche concorrenti, non avrebbe saputo da sola riprendersi quote di vendite.
Oggi la stessa Confindustria, guidata da Emma Marcegaglia, certifica il fallimento della politica economica, fiscale e industriale del “non-governo” Berlusconi. Anche le stime congiunturali sono state riviste al ribasso, mentre aumenta la pressione fiscale (siamo al terzo posto nell’OCSE, dopo Danimarca e Svezia, dove il welfare state e il tenore di vita sono di gran lunga migliori) e diminuiscono i salari e il potere d’acquisto. Mai nel mondo occidentale una compagine di destra che si basa ideologicamente sul taglio delle tasse, maggiore competitività e liberalizzazioni, più incentivi alla concorrenza e ai consumi, oltre agli aumenti salariali, è riuscita come quella guidata da Berlusconi, a partire dal 1994 ad oggi, a contrastare nei fatti queste teorie iperliberiste. Con Berlusconi, l’Italia ha sempre accresciuto il debito pubblico e il deficit di bilancio, il costo del lavoro è aumentato, mentre sono diminuiti drasticamente salari e potere d’acquisto, non ci sono state né privatizzazioni né liberalizzazioni ele tasse sono sempre state elevate, a livello statale e locale. Sono però aumentati i condoni fiscali tombali ed è cessata la lotta a fondo verso i settori produttivi e commerciali responsabili della più colossale evasione ed elusione fiscale al mondo, che ci fa essere i primi nella speciale classifica del disonore.
Ora, se il “Sistema Italia” non funziona, è chiaro che anche la classe imprenditoriale cerca nuove strade per risalire la china della crisi, dopo aver sprecato due decenni a speculare in finanza piuttosto che investire in ricerca, sviluppo e innovazione. Ma non è questa, ci sembra a tutt’oggi, la scelta di Marchionne e della Marcegaglia. I due, senza ben comprendere gli esiti futuri disastrosi delle loro scelte sindacali-imoprenditoriali “a tempo”, ammettono che si è di fronte ad una assenza di strategia economica del governo di destra, e così fanno ricadere tutto sulla forza lavoro. Gli esempi dei competitor esteri, dunque, non sono ritenuti validi per “l’anomalia Italia”? Il caso Germania col suo capitalismo partecipativo e l’azionariato diffuso tramite i Consigli di sorveglianza, ma anche le scelte keynesiane dell’amministrazione Obama e il neo-capitalismo indiano e brasiliano testimoniano che altre vie sono praticabili per uscire dalla crisi. In realtà, a capo dei grandi gruppi industriali competitor della FIAT non siedono più i “rampolli” di famiglia né esperti filosofi-commercialisti (Marchionne ha fatto la sua carriera come esperto di finanze in grandi società estere del settore): lì si scelgono ingegneri o top manager usciti da lunghe esperienze nello stesso settore industriale. E vengono, tranne casi rarissimi, pagati molto meno dei nostri Marchionne e compagnia bella.
Non è demagogia! Ma è come se a capo di un’azienda che produce auto, camion e veicoli industriali, si chiama un laureato in filosofia: forse potrà dare consigli sul come vivere in fabbrica, ma certo dovrà basarsi e fidarsi del management sottostante per stilare piani di innovazione e produzione, di quello stesso management che però ha portato quel gruppo alla crisi. Così il buon Marchionne, in poco più di 6 anni di “regno” è riuscito solo a risanare finanziariamente una FIAT che era sull’orlo del precipizio, ma ha perso la sfida produttiva con i suoi competitor. Non a caso si parla di un’ipotetica cessione del marchio Alfa Romeo e di un disimpegno dalla Ferrari: i due ultimi gioielli di famiglia da sacrificare forse sull’altare della competitività globale?
“La strategia di Marchionne che lega gli investimenti a una maggiore produttività puòfungere da volano per il risveglio del sistema industriale italiano. A due condizioni, però. La prima che non cerchi di scegliersi in proprio le controparti: una strategia fallitagià negli anni '50. La seconda, che non tenti un trapianto di modelli d'oltreoceano troppo distanti dalla nostra tradizione di relazioni sindacali. Il rigetto potrebbe costare caro". E' quanto scrive l'Avvenire, il quotidiano espressione della Conferenza Episcopale italiana, in un editoriale dedicato alle relazioni industriali del settore auto italiano, a firma di Francesco Riccardi . E invita la CGIL a fare pressione sulla FIOM “affinché assicuri maggiore disponibilità, abbandonando una visione ideologica della contrattazione quale strumento della lotta di classe. Allo stesso tempo, però, occorre che la Fiat eviti le forzature progressive per non compromettere, non solo le proprie relazioni industriali, ma il sistema più in generale. Il "come" si realizza l'intesa e il "dove" la si colloca, infatti, avranno un significato e conseguenze ben oltre il destino - pur importantissimo - dello stabilimento torinese”.
Se anche la “dottrina sociale” della Chiesa riconosce i pericoli della “svolta americana” di Marchionne, Marcegaglia e Confindustria, allora sì che la situazione è grave e solo una nuova visione economica e sociale del centrosinistra e della CGIL potrà forse contrastare la chiusura delle fabbriche e ridare un segnale di speranza anche alle nuove generazioni.