di Antonella Napoli
Se è uno scandalo che un giudice ridia dignità professionale a un giornalista In questi giorni la notizia del reintegro di Tiziana Ferrario alla conduzione del tg1 è stata accolta dalla maggioranza dei colleghi come un bel segnale contro l’arroganza e la violazione dei diritti nei confronti di un professionista. Una giornalista come Tiziana, che alla testata ‘ammiraglia’ della Rai ha dedicato gran parte della sua vita professionale portando un valore aggiunto con la qualità del suo lavoro, non meritava certo di essere messa da parte per ’colpa’ di un’anzianità di servizio quasi trentennale.
E se per riportate l’ordine giuste delle cose è stato necessario il ricorso al giudice, beh non capisco quale sia lo scandalo. Semmai di scandaloso, anzi drammatico, c’è ben altro… La storia di Tiziana è il rovescio di una medaglia che mostra una piaga del giornalismo ormai cronica. Prevaricazioni, soprusi, mobbing rappresentano in molti casi il confine fra queste vili forme di vessazione, che si subiscono in tutti i contesti lavorativi, e la disoccupazione in un mestiere sempre più chiuso.
Capita sempre più spesso che tutto ciò si saldi in un unico, alto, argine, che rende quasi impossibile attraversare il ‘ponte’, che sovrasta il baratro del ‘non lavoro’, senza cadere. Ma se ce la fai puoi andare avanti, trarre forza dal tuo passato e aiutare a rialzarsi chi rischia di precipitare. A molti di voi questa metafora apparirà eccessiva, poco comprensibile. Ma chi, come me, nell’arco di 20 anni, ha visto ignorare, schiacciare, fare a pezzi i diritti di professionisti con bagagli di esperienze alle spalle acquisiti in anni di lavoro nelle redazioni di giornali, radio, televisioni e nella comunicazione politica… beh, qualcosa da dire ce l’ha, eccome!
Ed ha tutto il diritto, se non il dovere, di denunciarlo. Nel nostro mestiere, da tempo in crisi, capita di doversi adeguare a nuove forme contrattuali, editori sempre più esigenti e meno disponibili, o - come nel caso degli uffici stampa parlamentari - a un datore di lavoro diverso per ogni legislatura che si sussegue. In contesti come questo, nonostante si accumulino anni di impiego subordinato e continuativo - ma sempre con contratti a tempo determinato - non si maturano scatti di anzianità, diritti di alcun genere.
Continui a lavorare con la consapevolezza che potrebbe arrivare il momento in cui qualcuno decida che tu non serva più. Poco importa se in quegli anni hai ricoperto incarichi di responsabilità per poi essere ridimensionato. Poco importa se hai garantito una copertura ben oltre quella prevista dagli obblighi contrattuali, magari diminuendo i giorni di ferie e di malattia, se non addirittura rinunciando ad essi.
Può capitare, senza che nessuno intervenga per tutelarti, che si debba sottostare alle decisioni di un nuovo responsabile, anche quando queste risultino degradanti e poco qualificanti. Sei costretto ad accettare, se non vuoi perdere il lavoro. Non hai potere contrattuale per poter chiedere ciò che ti spetta: un minimo di dignità per quella che è la tua storia, la tua esperienza, la tua professionalità. No. Se non ti sta bene l’alternativa è andar via. Ma in un momento congiunturale così negativo e con un ‘mercato’ impazzito, qual è l’alternativa? Semplice! Non c’è.
E così sempre più spesso vedi colleghi di alto profilo e competenza sottostare a disposizioni coercitive, a volte umilianti, perché sanno di non potersi opporre e rischiare di andare ‘fuori dal giro’, perché sono consapevoli che non c’è mercato per un giornalista professionista con dieci, quindici, venti anni di anzianità, con una formazione ormai definita in un settore esclusivista com’è quello della comunicazione politica a fronte di neo professionisti appena usciti dalle scuole o da praticantati di facciata pronti a lavorare senza garanzie e accontentandosi di un quarto del tuo stipendio.
Allora vai avanti nonostante sia dura limitare, giorno dopo giorno, le tue capacità professionali. Voli basso, perché è questo che ti viene chiesto. E non puoi fare altro. E’ sconfortante leggere certe cose, lo so. Ma lo è di più ignorarle e tacerle. Soprattutto quando tutto quello che vi ho raccontato avviene in un contesto istituzionale, quando i datori di lavoro sono le cosiddette ‘amministrazioni centrali’ che condannano ogni sorta di precarietà, di sfruttamento,di prevaricazione e, soprattutto, di illegalità. E difficile riuscire a credere che si perpetrino delle ingiustizie così gravi in contesti ‘pubblici’. E invece succede. E non si può più ignorarlo.