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Articolo 21 - Editoriali
Tortellini connection - le mafie in Emilia Romagna
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di Gaetano Alessi

Emilia Romagna, terra gaudente, di solidarietà, buon governo, welfare e mafie. Affermazione dura? Giudicate in seguito. Sessantatré cosche mafiose operanti sul territorio, trentasette di ‘ndrangheta (ci sono le ’ndrine di Platì, della Piana di Gioia, di Reggio Calabria, di Isola di Capo Rizzuto, via via fino ai Cutresi), dodici di camorra, dodici di cosa nostra, una della sacra corona unita. Numeri impressionanti, ma non è finita. Nell’ultimo Rapporto di Sos-Impresa Confesercenti, si scopre anche che il 5% dei commercianti emiliano romagnoli (soprattutto tra Modena, Bologna e la Riviera) è sottoposto a pizzo. Storia dura da digerire per chi ha visto le mafie come un problema lontano, mentre in realtà le radici dell’infiltrazione in regione sono più antiche di quanto si creda.

Nel 1958 Procopio Di Maggio, capo mandamento di Cinisi, sbarca a Castel Guelfo in soggiorno obbligato. Da qual momento in poi (1961- 1995) una vera e propria ondata di 3600 sorvegliati speciali invaderà l’Emilia Romagna (con una prevalenza nelle province di Forlì, Rimini, Parma e Modena) facendo affari d’oro dapprima con l’usura e poi, sempre più velocemente, penetrando tutti gli altri mercati. ‘Ndrangheta e camorra sguazzano in tutti i settori, dalla droga alle scommesse clandestine e per indole tendono a farsi “sentire” sul territorio: la cronaca parla di intimidazioni, gambizzazioni e tutto il repertorio classico della criminalità. Mentre “cosa nostra” lavora in silenzio principalmente nel modenese, con una infiltrazione profonda nel settore delle opere e degli appalti pubblici. Tutte le mafie utilizzano la regione per riciclare denaro sporco. Ma non è finita. La direzione provinciale del lavoro di Bologna denuncia che tra gennaio ed ottobre del 2010 l’aumento degli illeciti sul lavoro rispetto al 2009 è stato del 36%. Crescono gli appalti illeciti del 22% ed il numero di lavoratori irregolari (più 133%). La percentuale dei lavoratori in nero nei cantieri edili sul totale degli irregolari passa dal 42% al 59%.

Le indagini della DIA arrivano ad affermare che i sodalizi criminali (i famigerati Casalesi su tutti) sono stabilmente “in grado di aggiudicarsi gli appalti ed acquisire le concessioni”. La relazione presentata dalla Direzione investigativa antimafia è virulenta e snocciola come un rosario una realtà di illeciti e complicità. “La presenza e l’operatività di alcune cosche -si legge nella relazione- in particolare a Bologna, Modena, Reggio Emilia e Parma, è profondo con un progressivo ampliamento degli interessi anche verso altre province”. C’e’ anche Rimini, ormai “segnata dalla presenza di cosche crotonesi- segnala il rapporto della Dia- che mantengono il controllo di bische clandestine, estorsioni, usura e traffico di stupefacenti” in diretto collegamento con le cosche “Vrenna di Crotone e Pompeo di Capo Rizzuto”. E poi Ferrara, dove la DIA ha registrato “la presenza di elementi riconducibili alla ‘ndrina Farao-Marincola di Cirò”. Si scende fino al perimetro di Forlì, terreno di conquista dei “Forastefano di Cassano allo Jonio”, nel cosentino. La Dia parla inoltre di tradizionali e “qualificate presenze” anche a Reggio Emilia e Piacenza. L’espansionismo della ‘ndrangheta mira anche al capoluogo, come dimostra del resto l’arresto a Bologna di Nicola Acri, considerato il capo della ‘ndrina di Rossano Calabro. Ancora più allarmante il quadro riferito alla camorra. Il rapporto della Dia riconosce ai Casalesi un “significativo profilo di imprenditoria criminale”, dotato di “reali capacità tecnico-imprenditoriali che li mette in grado di aggiudicarsi gli appalti ed acquisire le concessioni, non solo nell’area casertana, ma anche in territori extraregionali non storicamente condizionati dall’endemica presenza della criminalità camorristica, quali quello emiliano”. A Bologna la Dia accredita la presenza di “soggetti legati a “Sandokan” al secolo Francesco Schiavone capo supremo dei Casalesi, ora confinato nel carcere di Modena in regime di 41 bis. Proprio sotto le due torri il pericolo più consistente è quello dell’”estorsione ai danni di piccoli imprenditori di origine campana”. Un fenomeno comprovato da una serie di maxi sequestri della Dda per ben sei milioni di euro. Le rendite dell’estorsione finiscono poi in “accertate società imprenditoriali” attive nel campo dell’edilizia. A riprova dell’”interregionalità inconfutabile” della malavita campana, la relazione della Dia racconta di una progressiva “espansione” fino a Cento, nel ferrarese.

La Sacra Corona Unita, meno interessata ad investire in regione, si dedica allo smercio di droga. Un vero e proprio dominio instaurato “in alcune località turistiche” emiliano-romagnole, in primis Rimini. Con metodi avveneristici, secondo la Direzione investigativa antimafia: ordini effettuati telefonicamente con schede prepagate usa e getta e pagamenti rigorosamente on-line, con vaglia postali o Paypal, rapidissimo sistema telematico per saldare i conti con un semplice account e un indirizzo di posta elettronica. Ma c’è dell’altro. Oggi l’Emilia Romagna è la quarta regione del Settentrione per numero di beni confiscati alle mafie. L’allarme era stato lanciato nel 2009 da Mario Spagnuolo, allora procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, parlando di una economia, quella emiliana, seriamente in pericolo.

Quindi le mafie in Emilia Romagna ci sono. E l’antimafia? L’Emilia Romagna è una regione ricca, ospitale. Ma anche qui i politici spesso negano l’intreccio o i rapporti tra le mafie e l’opulenta e colta borghesia locale: a Parma come a Reggio Emilia, a Modena come a Bologna. La mafia non esiste, e se esiste vive ai margini di una società che crede di avere gli anticorpi per resistere alle infiltrazioni mafiose. I boss hanno liquidità e voglia di investire. E hanno bisogno di “sponde” per entrare nel giro che conta. “I soldi in periodo di crisi non fanno schifo”, affermano candidamente alcuni dirigenti delle Coop. E per un Antonio Mumolo, consigliere regionale del Pd, che spinge per una legge di contrasto alle mafie in regione, il corpo monolitico di potere emiliano-romagnolo tace. L’antimafia viene quindi delegata a gruppi di volontari che nelle varie province svolgono un lavoro oscuro ma importantissimo.

“Abbiamo appena pubblicato un dossier sulle bische clandestine in romagna dal 1980 ad oggi – ci dice Massimo Manzoli presidente del Gruppo dello Zuccherificio di Ravenna – i dati sono allarmanti e parlano di infiltrazione vecchie di decenni”.”A Bologna ci sono ben nove beni confiscati a “cosa nostra” solo dentro le mura e nessuno ne parla – afferma Federico Alagna leader delle Rete No Name di Bologna – noi presenteremo presto un lavoro che metta in luce questa situazione, mentre ci stiamo impegnando per studiare il fenomeno del racket ben presente in città, ma sempre sotto traccia”. A Parma l’associazione “Sui Generis” è una fucina di iniziative antimafia.”Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”, diceva Paolo Borsellino e noi abbia preso per regola questo suo insegnamento”. Afferma tra un nugolo di riccioli rossi Francesca Mastracci. A Rimini il gruppo dei G.A.P (gruppo antimafia Pio La Torre) svolge un instancabile lavoro di supporto alle Cooperative che in Sicilia operano sui terreni confiscati alla mafia. “Ogni volta che facciamo qualcosa per la Coop “Lavoro e Non solo” di Corleone ci sembra di camminare sulla faccia di Riina e Provenzano” dice Davide Vittori. “Siamo consapevoli che le mafie sono ben presenti anche sul nostro territorio, la battaglia per la legalità si combatte ormai in tutta Italia”. Il Popolo Viola ormai da mesi porta avanti l’iniziativa “Notti contro le mafie” in quasi tutte le province emiliane, coinvolgendo giornalisti, docenti, magistrati e tanta gente comune. Antimafia militante di giovani contro tutte le criminalità italiane, alle quali si aggiungono le mafie cinesi, albanesi, russe, croate.
Nell’Emilia Romagna, dove ufficialmente “La mafia non esiste”, piccoli anticorpi democratici crescono e sbarcano all’Università. Stefania Pellegrini, docente della facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo di Bologna (e legatissima a Libera di Don Ciotti), promotrice da anni di un seminario che porta il tema delle mafie in ateneo è riuscita nel passo successivo di trasformarlo in un corso vero e proprio. Centinaia gli studenti che hanno già chiesto l’iscrizione ad un esame che quasi la totalità della classe politica emiliano-romagnola riuscirebbe a superare.

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