di Luca D'Anna, Gaetano Alessi
Sabato 12 febbraio, Porto Empedocle. Arriviamo di fronte alla struttura della protezione civile quando è da poco passata la mezzanotte. A pochi metri, coi motori appena spenti, vediamo la nave che ha appena portato a terra il secondo gruppo di migranti tunisini, sbarcato qualche giorno prima a Lampedusa. Sull’isola la situazione è drammatica, gli 850 posti disponibili al centro d’accoglienza frettolosamente riaperto dalle autorità sono un’inezia di fronte al fiume umano che si sta riversando da una costa all’altra del Mediterraneo. Le conseguenze di questa inefficienza si condensano tutte nell’odore che ci colpisce ancora prima di mettere piede all’interno del capannone: nervosismo e sudore, odore di viaggio, di ore passate all’addiaccio senza avere a disposizione neppure un rubinetto per sciacquarsi il viso. Normale dopo un viaggio in mare, un po’ meno dopo due giorni passati a Lampedusa. La scena che ci si presenta innanzi appena entrati è quasi evangelica nella sua crudezza: a sinistra, sfiniti e finalmente stesi su materassi di fortuna messi a disposizione dalla protezione civile, imbacuccati in coperte dai colori variopinti, stanno i migranti condannati dall’evidenza della maggiore età ad essere rimpatriati. Poche speranze per loro di essere accolti nel nostro paese, a meno di non richiedere un diritto d’asilo che li condannerebbe a non poter rimettere piede nel loro paese per almeno tre anni, comunque evolva la situazione in Tunisia. A destra, invece, ammassati dietro alle transenne gialle della protezione civile, i ragazzi, a volte poco più che bambini, che avranno la fortuna di essere ospitati nelle comunità di alloggio sparse per tutta l’isola e sognare un futuro nel nostro paese, o più spesso in Francia, paese il cui nome viene scandito quasi come un’invocazione. Le immagini che circolano in rete raccontano meglio di qualunque descrizione la scena in questione, quello che le telecamere non riescono a catturare è l’intreccio confuso di sentimenti che impregna l’aria: quelle transenne che dividono non riescono a fermare gli sguardi che si rincorrono, strappano un sorriso o un ammiccamento, il desiderio di parlarsi e il pudore di non sapere, in fondo, cosa poter dire a chi ha sfidato la morte per trovarsi adesso in un capannone. Quando entriamo le procedure di identificazione sono in corso, qualcuno rientra da una visita in ospedale con una vistosa fasciatura, col nostro arabo un po’ stentato tentiamo di rassicurare i ragazzi, dicendo loro che no, non saranno rimpatriati, la legge italiana vieta il rimpatrio dei minorenni. Un ragazzo egiziano ospite già da tempo in una comunità conferma le nostre parole e la diffidenza comincia a dissolversi, grazie anche al lavoro infaticabile di Save the Children, che ha assistito i migranti fin dallo sbarco a Lampedusa. Il ghiaccio è ormai rotto e iniziamo a parlare coi ragazzi, provenienti tutti dal porto di Zarzis, città di 80000 abitanti in cui da qualche giorno non c’è traccia di alcuna autorità costituita. Qualcuno sognava di partire da tre anni e ha colto al volo l’occasione, altri sono stati spaventati dalla piega presa dagli eventi nel paese. Dopo qualche minuto, in un clima fattosi ormai giocoso, ci troviamo a ridere con loro ma col groppo alla gola, quelle transenne sono lì a ricordarci che qualunque cosa dicano i nostri sguardi e per quanto proviamo ad essere amichevoli loro sono irrimediabilmente di là e noi, ingiustamente, di qua. Le procedure si protraggono fino alle cinque del mattino, quando, con le palpebre appesantite, i ragazzi sono pronti al trasferimento nelle comunità di alloggio. È il momento di abbracciarsi e di rassicurare, ancora una volta. È anche il momento in cui un ragazzo chiede a me, l’unico italiano a parlare arabo, di poter salutare lo zio, ha capito che il suo destino sarà diverso e sfortunato. Lo accompagno insieme ad un carabiniere, i due si scambiano un cenno di saluto, con una dignità a cui raramente mi è capitato di assistere. È una scena dura, una scena che obbliga tutti i presenti a rendersi conto, volenti o nolenti, dell’umanità che lo Stato cela dietro alle sue transenne gialle, dell’umanità di uno zio che potrebbe essere il nostro, che infila una mano in tasca e tira fuori una banconota logora da porgere al nipote. Allah ma’ak, che Dio sia con te, e poi via, senza voltarsi, ma con gli occhi che bruciano.
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