di Vittorio Emiliani
Nel "rivoluzionario" 1848 Giuseppe Verdi scriveva all'amico e librettista Francesco Maria Piave: "Sì, sì, ancora pochi anni, forse pochi mesi, e l'Italia sarà libera, una e repubblicana".
Sei anni prima aveva composto quel "Nabucco", quel "Va' pensiero" che i leghisti con somma ignoranza hanno assunto quale loro inno anti-unitario, ormai anti-italiano. Per Verdi invece, oltre che libera e repubblicana (lo fu soltanto nel 1946) l'Italia doveva essere "una", cioè unitaria.
Circa un anno dopo, il 27 gennaio del 1849, Verdi diresse al Teatro Argentina di Roma un'opera altamente patriottica, "La Battaglia di Legnano" (altro che Carroccio bossiano, quella Lega era per l'Italia!), con un successo delirante di pubblico, il teatro invaso da coccarde e bandiere tricolori, Mazzini, ottimo musicista oltre tutto, e Garibaldi, appassionato di melodramma, in prima fila. L'ultimo atto fu interamente bissato fra i battimani. Stava per aprirsi la stagione entusiasmante e drammatica della seconda Repubblica Romana che si sarebbe conclusa con l'intervento in forze delle truppe francesi, nonostante le proteste di Victor Hugo, di Clemenceau, di tanti intellettuali e politici d'Oltralpe. Giuseppe Verdi scrisse dopo quella drammatica conclusione (erano morti tanti giovani accorsi dal Nord a combattere, come Goffredo Mameli e Luciano Manara) all'amica francese Marie Escudier: "Il governo dei vostri a Roma non è migliore degli altri in Italia. I Francesi fanno del loro meglio per accattivarsi l'amore dei Romani, ma finora questi sono dignitosissimi e fieri (...) Checché ne dicano i vostri giornali, il contegno dei Romani è dignitosissimo". Un'altra bella botta secca alla ignoranza supponente dei leghisti.