di Gianni Rossi
Il “Marziano a Roma” è tornato! Come non bastasse la sua deludente performance da avanspettacolo al Parlamento e davanti alle forze sociali, si è preso anche un terzo giorno di replica per annunciare l’anticipo di una manovra depressiva e “lacrime e sangue”, e far conoscere al mondo intero, sempre più scettico e ipercritico sulle sue trovate, il suo credo politico: mani libere in economia, mattanza sociale, sacrifici solo ai “poveretti” con reddito fisso, e poi… “Domani sarà un nuovo giorno, si vedrà!”. Ed ecco che Berlusconi, sulle ali di “Via col vento, come una rediviva Rossella O’Hara, a dispetto dei suoi 18 anni di apparizione sulla scena politica, è diventato l’epifenomeno della crisi mondiale del capitalismo. Per questo imprenditori, piccoli e grandi, banche, sindacati lo hanno sfiduciato con il loro “Patto per la crescita e la discontinuità”. Per questa ragione è diventato il bersaglio preferito delle critiche e dei commenti al vetriolo della stampa internazionale, specie quella economica che conta. “Berlusconi inadatto a guidare l’Italia./ Basta./ Mamma mia./ L’uomo che ha fregato un intero paese.” ha intitolato dal 2001 ad oggi le sue copertine l’autorevole settimanale britannico The Economist, ma è tutta la cerchia del capitalismo imperante che lo vuole fuori dai piedi, perché lo ritengono un virus contagioso, un’anomalia nata dal seno delle loro stesse contraddizioni inestricabili.
Quando un sistema democratico, basato sulle regole del capitalismo liberista, affida le sue sorti al più ricco e potente imprenditore del paese, ecco che si crea un cortocircuito storico: un ritorno al passato feudatario, che le stesse teorie del capitalismo ottocentesco avevano aborrito. Se il “padrone delle ferriere” è anche il capo del governo locale non ci sono regole liberiste che tengano: quella landa desolata è destinata a soccombere, perché crea una barriera antistorica sia per l’evoluzione dei sistemi democratici sia per lo sviluppo delle libere economie concorrenti. La crisi, che il mondo sta vivendo ciclicamente da almeno 20 anni, è figlia della decadenza dei principi cardine del capitalismo iperliberista e monetarista, che venne codificato dalla “Scuola economica di Chicago” del premio Nobel Milton Friedman, agli inizi degli anni Settanta: fine del ruolo etico e sociale dello Stato, intervento dei governi in maniera autoritaria fino all’uso di regimi autoritari e delle torture (lui e i suoi discepoli furono consulenti del dittatore cileno Pinochet, di Nixon, di Reagan e della Thatcher), abolizione del welfare state, difesa della moneta come valore assoluto per contenere l’inflazione, privatizzazioni e liberalizzazioni di qualsiasi settore pubblico, “irresponsabilità sociale” dei top manager aziendali.
I suoi emuli, variamente orientati tra destra e sinistra politica, sono ancora oggi ai vertici di istituzioni fondamentali per orientare i mercati, come la Fed americana, la BCE europea, l’FMI e la Banca Mondiale. Leader politici di destra e di sinistra europei si sono basati sulle sue teorie, più o meno “addolcite”, per governare le fasi salienti delle ricorrenti crisi economiche e finanziarie (dal britannico Blair, al tedesco Schroeder, entrambi socialdemocratici, agli americani Bush padre e figlio, reazionari, e agli stessi democratici Clinton ed Obama, o come il francese Sarkozy e la tedesca Merkel). In Italia, a seguire in parte le sue ricette, in versione “all’amatriciana”, ci si sono messi un po’ tutti dal 1992 in poi, da quando la Lira, insieme alla Sterlina, fu preda della speculazione internazionale ( e il finanziere “rosso”, dal “volto umano” George Soros, guidò la pattuglia d’assalto): il socialista Amato, il liberale Ciampi, il cattolico progressista Prodi e, infine, lo sciagurato Piazzista di Arcore, Berlusconi.
Purtroppo è l’Italia il laboratorio di questa decadenza del sistema capitalismo avanzato, proprio perché riassume in negativo tutti i criteri insiti nello scenario iperliberista disegnato da Friedman: un paese in parte arretrato come mercato economico e finanziario, ma comunque ricco e grande esportatore; un debito pubblico mostruoso (il terzo al mondo) che lo rende debolissimo e attaccabile sempre dalla speculazione; una democrazia istituzionale fragile; un classe imprenditoriale “familistica”, che predilige investire in finanza e che agogna al potere politico, tanto da portare al governo il suo massimo esponente; un apparatopubblico, centrale e locale, burocratico, elefantiaco e senza il “senso dello stato”; un’opposizione politica e parti sociali divise e in lotta fratricida tra loro. Questa cronica conflittualità e precarizzazione del “sistema Italia” ha fatto sì che il nostro paese non abbia trovato quiete in questi 20 anni; che dalle tasche degli italiani, che lavorano e pagano le tasse (lavoratori dipendenti, pensionati, imprenditoria sana), siano state sottratte ingenti ricchezze mobiliari e immobiliari. Nel frattempo sono cresciute le disuguaglianze sociali, l’evasione e l’elusione fiscale (siamo i primi al mondo), si è ampliata enormemente la soglia della povertà, si è prepotentemente arricchito a dismisura una piccola percentuale del paese, mentre gli altri hanno sognato ad occhi aperti nell’attesa messianica del “miracolo mediatico” propagandato dal Sultano di Arcore.
L’attacco della speculazione finanziaria alla nostra Borsa e ai titoli di stato italiano (spinto concentricamente anche dalle analisi pessimistiche elaborate dalle tre agenzie di rating, Standard&Poor’s, Moody’s, Fitch) è sintomo dell’inadeguatezza di questa leadership, dell’intera classe politica, delle loro proposte, della perdita di con senso e fiducia da parte dell’intera opinione pubblica. In poche parole, solo le elezioni e un cambio radicale di “volti e persone” potrebbero far modificare questi giudizi catastrofici sul futuro dell’Italia. Non siamo soli, certo! Anche gli Stati Uniti di Obama, dopo il lungo braccio di ferro con l’ala radicale dei repubblicani (quelli del “Tea Party”, sponsorizzati e propagandati dai media controllati dallo “Squalo” Rupert Murdoch), nonostante le modifiche al bilancio decennale ora si ritrovano con una stima negativa da parte di S&P, che per la prima volta nella storia ha abbassato il rating dei Bond americani di un punto dalla tripla “A”. Oggi più che mai, l’instabilità dei mercati finanziari colpirà anche i maggiori creditori dei debiti sovrani USA: la Cina, che già si lamenta, essendo il primo investitore in quei titoli, i paesi arabi del Golfo e il Giappone, già di per sé colpito al cuore dal terremoto e dallo tsunami.
L’attacco ai paesi mediterranei dell’Euro (i cosiddetti PIIGS, “Poorcellini”) è una mossa per far crollare l’impalcatura dell’Eurozona, il vero nucleo duro dell’Unione Europea. Certo, questo potrebbe anche significare la riduzione dell’impatto dell’inarrestabile discesa di potenza economica degli USA, rispetto ai paesi emergenti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che investono molto in euro. Nel 1945 i creditori esteri detenevano solo l'1% del debito americano, ora ne controllano il 46%! Distruggere, però, la compattezza europea significherebbe ritornare ad una geopolitica fatta di “staterelli”, dominati da una potenza militare e affaristica come gli Stati Uniti, la patria del capitalismo iperliberista e rinforzarne il ruolo, proprio in piena crisi. Sta qui l’impasse di questa crisi, molto più dura e lunga rispetto a quella del 1929, anche perché le ricette classiche non sono più utilizzabili. Dalla finanziarizzazione si può uscire solo con ricette di sviluppo eco-sostenibile, di ampliamento delle protezioni sociali, della difesa della qualità della vita e della cultura, della conoscenza e dell’educazione.
Questa situazione “ferragostana” sui mercati surriscaldati, invece, fa emergere la fine del capitalismo, perché la concorrenza è dettata dalla speculazione incontrollabile da parte degli stati, a loro volta indebitati enormemente dal 2008, per finanziare banche e settori industriali. Il cane si morde la coda e a nulla vale il principio cardine capitalista della libera circolazione di merci, persone, capitali e idee, regolate da leggi sovranazionali. All’orizzonte si intravede il ritorno alla barbarie e cominciano a sentirsi gli squilli di guerre, da quelle protezionistiche a quelle doganali fino a quelle guerreggiate davvero. Fine del capitalismo dunque, ma assenza al momento di un’alternativa ideale complessiva.
All’orizzonte tante teorie sparse e specialistiche, nessun leader né locale né globale. Siamo nella “terra di mezzo” e, allora, occorre gridare forte alcune idee dirompenti:
- Chiudere le borse a tempo, quando queste si mostrano solo luoghi di speculazione, che inoculano virus contro i fondamentali sia delle aziende sia dei bilanci statali con i loro debiti sovrani aggrediti.- Tasse sulle intermediazioni fuori e dentro i canali ufficiali delle borse (ad esempio, la TTF allo 0,05%, come votato
dal Parlamento europeo). Creazione di un’Agenzia di rating europea autonoma, senza capitali privati, al’interno dell’OCSE.
- Perdita dell’anonimato nelle contrattazioni. Un tabù capitalistico forte da infrangere, ma quanti di noi sono realmente “anonimi” per il fisco, pur avendo un immobile, lo stipendio e qualche risparmio? Siamo tutti registrati e quindi anche chi opera, specula sui mercati deve avere la sua nominabilità.
- Abbattimento dei tassi interessi nell’eurozona a livelli di USA e Giappone, vicini allo Zero.
- Riduzione del numero e dei livelli delle aliquote fiscali per i redditi fissi.
- Rilancio del welfare state.
- Ridefinizione dei servizi essenziali e della presenza dello stato in economia per rivedere i concetti di privatizzazioni e liberalizzazioni.
Sono solo alcune idee provocatorie, aperte alla discussione, ma l’intellighenzia progressista o si assume di elaborare un progetto a lunga scadenza, davvero alternativo al “capitalismo moriente”, oppure siamo destinati e perire in un regime berlusconizzato. L’ascesa di frange estremistiche di destra nell’Europa ricca e di forti tradizioni socialdemocratiche, che prendono a spunto l’immigrazione, l’islamizzazione (caso Norvegia, ma anche Danimarca, Olanda, Finlandia e, drammaticamente, Ungheria), è solo un aspetto, sociale, del protezionismo economico: non potendo alzare le barriere doganali si alzano le barriere razziali e si ingaggia una guerra di civiltà. Ecco ancora un altro aspetto della fine del capitalismo moderno e il rischio della barbarie, che potrebbero avere il sopravvento sui sistemi democratici, specie i più deboli e in crisi finanziaria.