di Giorgio Bocca
Mi è rimasta impressa nella memoria l´angoscia di quel 25 aprile del ´45; il pensiero di poter morire in quell´ultimo giorno di guerra dopo essere scampato ai venti mesi della lotta partigiana, e di non poter rifiutare quell´ultimo rischio proprio per quei venti mesi, proprio perché non potevo mancare il giorno della loro fine, della liberazione. E mentre nei venti mesi avevo vissuto in una assurda certezza di immortalità , nella certezza di essere padrone del mio destino in quel 25 aprile sentii d´esser affidato al caso, trascinato da eventi incontenibili.
Perché militarmente il 25 aprile del â??45, l´insurrezione, la liberazione fu questo: una corsa dietro eventi in certo senso accaduti prima di accadere, previsti nel loro succedersi caotico, lo sfondamento della linea Gotica da parte degli alleati, la rotta dei tedeschi e dei fascisti, la resa dei conti, la corsa fra la gioia e l´angoscia dalle montagne della Val Maira, a Savigliano, a Cuneo, a Torino fra sparatorie improvvise come temporali d´estate, cadaveri di fascisti nelle acque del Po, una colonna di carri armati tedeschi che gira a vuoto fra il basso Piemonte e il Canavese, sparando qualche cannonata sulle cascine, dovunque le casualità e i rischi di un epilogo convulso. E per tutti i decenni seguenti i discorsi inutili sull´importanza militare di un evento, la liberazione, l´insurrezione che era invece totalmente politica, già dentro quell´indimenticabile esperienza che fu la nascita, la fabbrica di una democrazia.
Il revisionismo storico in corso da mesi ha scarsa memoria ed è dominato da un´ossessione sadica. Non vede altro che cadaveri, comunismo in agguato, reciproche congiure, ma la storia di quando si è giovani è giovane, fiduciosa, con le speranze e le illusioni dei giovani. Metà delle case di Torino, di Milano, delle grandi città erano macerie, i macchinari della Fiat erano ancora nascosti in campagna o nei sotterranei, si viaggiava sui carri merci o sui camion a carbonella, gli eserciti stranieri ci occupavano con i loro carri armati grandi come palazzi, decidevano sulla nostra sussistenza e sulla nostra indipendenza, eppure non c´è mai stato da noi un più grande, un più illimitato, un più trascinante senso di libertà , di ottimismo.
Il giorno dopo passai a casa mia a Cuneo per salutare i miei. Ricordo che mio padre, preside di una scuola tecnica presso le officine ferroviarie di Savigliano, mi confidava la sua paura dei comunisti che avevano occupato la fabbrica e issate le bandiere rosse. E io non capivo perché mai i comunisti dovessero far paura e considerare nemico un professore di matematica che faceva il preside a mille lire al mese e girava con un regolo calcolatore nel taschino di un abito grigio, comprato fatto nei magazzini generali. Dopo mesi di guerra in comune, di nemico comune, quei comunisti non ci facevano paura. C´era meno paura del comunismo allora, che stava formandosi da noi il partito comunista più forte di Europa, che c´erano Stalin, l´Armata rossa, il mito della rivoluzione, la classe operaia e i vecchi compagni del "pugno di ferro" che oggi che il Partito comunista non c´è più, e che alla classe operaia hanno tagliato unghie e denti...
La democrazia che in quel 25 aprile tornava a vivere nelle nostre città a pezzi, nelle nostre strade piene di buche, nei nostri negozi semivuoti non era qualcosa di artificiale, era un bene ritrovato e fortemente condiviso e noi eravamo fermamente convinti che questa volta sarebbe durata in eterno. Era in corsa una resa dei conti anche feroce, ma fisiologica, come una gran febbre che ci avrebbe fatto guarire dal passato e vedo che oggi a sessanta anni di distanza il revisionismo storico se ne occupa con ossessione, come avesse trovato il segreto di quel partigianato che proprio non gli va giù. Ma noi partigiani della montagna, la spina dorsale della resistenza, non ce ne occupavamo, noi eravamo già nella stagione in cui si fabbrica la democrazia, si studia la democrazia, si scoprono i sindacati, le commissioni interne, le migrazioni interne, un Paese di diversi ma uniti, di cittadini responsabili e solidali.
Le riflessioni amare su questo 25 aprile di sessanta anni dopo vertono sulla fine di quella voglia comune di andare avanti, di fare del nostro un Paese civile e giusto a misura della Costituzione che allora avevamo pensato e votato, assieme in una Italia unita nonostante e forse per merito di una guerra in parte civile. E siamo ancora qui, in questo strambo Paese a resistere questa volta ad assurdi ritorni al passato a penose equiparazioni nel peggio, a un populismo truffaldino, ai trionfi delle mafie.