di Gianni Rossi
Il caso del fallimento del bilancio statale della Grecia sta diventando la cartina di tornasole di come uscire o meno dall’attuale crisi economico-finanziaria. Se si usano le categorie dell’iperliberismo monetarista, finora l’unica ideologia sopravvissuta al crollo delle ideologie storiche a seguito della caduta del Muro di Berlino, allora la Grecia fallirà e il popolo ellenico entrerà in un vortice di povertà e di violenza sociale mai viste finora. E tutta l’Eurozona entrerà in un “cul de sac”, che potrebbe anche portare alla separazione in due fasce dell’Unione Europea, con i paesi meno virtuosi, come i PIIGS, tra cui l’Italia, relegati nella “Zona B” e i paesi nordici, compresa Francia e qualche ex-satellite di Mosca nella “Fascia A”. Le tensioni sociali aumenterebbero col rischio di una destabilizzazione permanente del continente europeo e della sua involuzione sui mercati finanziari, monetari ed industriali.
A creare questa situazione ipercritica ci ha pensato un istituto sovranazionale che nelle intenzioni dei “padri fondatori” dell’Euro avrebbe dovuto invece essere il motore per l’integrazione monetaria, fiscale ed economica dell’Unione, la BCE, la Banca centrale europea che fra poco sarà guidata dall’italiano Mario Draghi. In realtà, il sogno europeista dei “padri dell’Euro” era basato su concetti di solidarismo e di sviluppo coordinato delle economie, tenendo sotto controllo le spese pubbliche inutili degli stati membri e il livello dell’inflazione. Un positivo compromesso tra le idee keynesiane e quelle del “capitalismo compassionevole”. Ma le ricorrenti crisi economiche, industriali e finanziarie, accentuate dai massicci investimenti bellici, che provenivano dagli Stati Uniti hanno di fatto con la globalizzazione dei mercati minato questa nuova realtà costituita dall’Eurozona.
E’ l’Europa, il principale competitor degli Usa e il “faro” cui guardano i paesi emergenti del BRICS, ha pagare maggiormente le spese dell’ultima crisi americana avviata dal fallimento dei mutui subprime e dei prestiti “allegri”. A pagare l’involuzione dell’industria americana, senza più innovazione e con magazzini pieni di prodotti troppo cari e poco competitivi, incapace di collaborare con il sistema industriale europeo e di fare “cartello” contro l’invadenza cinese ed indiana, dove il protezionismo, le disuguaglianze sociali e l’assenza di welfare se hanno creato nuova occupazione hanno anche sviluppato uno sfruttamento di massa a livello statale, unico nella storia del capitalismo mondiale.Ponte di penetrazione verso l’Europa del virus micidiale della crisi finanziaria è stata la Gran Bretagna, con il suo sistema bancario impelagato nelle più fallimentari speculazioni sul mercato statunitense. Da qui un forte impegno statale di Londra a risanare le banche e da qui il nuovo tossico attacco all’Euro e al sistema politico-giuridico dell’Unione Europea, sponsorizzato anche dai media controllati dal magnate Rupert Murdoch, lo “Squalo” che insieme al figlio e ai vertici del gruppo si è dovuto scusare per le intercettazioni illegali dei suoi tabloid.
Ecco perché il neo-conservatore premier Cameron spara a zero sui paesi meno virtuosi dell’Eurozona e con lui il ministro del Tesoro americano. L’indebolimento dell’idea stessa dell’Euro è difatti ritenuto dai neo-conservatori e da una parte dell’amministrazione Usa un’occasione ghiotta per riprendersi dalla profonda crisi economica che li attanaglia, tornando al predominio del dollaro sugli scambi e le accumulazioni di bond statali, riprendendosi una leadership negli affari commerciali, determinando per altro le variazioni dei prezzi dei prodotti energetici e dei metalli rari. Insomma, la Gran Bretagna sta giocando un ruolo “dirty”, sporco, per conto dei grandi interessi finanziari-mediatici-energetici, essendo Londra la prima grande “piazza” finanziaria del mondo.
Salvare il “soldato Grecia”, dunque? Non c’è alternativa per i governi europei, se vogliono uscire dalla crisi e tornare ad essere quel “faro” per le economie che stanno agganciando i livelli di sviluppo e di benessere un tempo agognati. Ma per salvare la Grecia non servono le ricette neo-conservatrici all’americana, lo “strozzinaggio” dei crediti, i diktat sui sacrifici occupazionali e sociali. Le ricette, mai come in questa contingenza, vanno ricercate nelle teorie Keynesiana, riviste alla luce della globalizzazione e dell’evoluzione dei mercati e dei sistemi di produzione, oltre che dei diritti acquisiti dalle forze lavoratrici nel dopoguerra.
Vanno, insomma, rigettate quelle ricette retrograde e antistoriche che sembrano andare tanto di moda in casa FIAT nell’era Marchionne. La fuoriuscita dalla Confindustria, in polemica con l’accordo tra sindacati e organizzazioni imprenditoriali che di fatto hanno esautorato il famigerato “Articolo 8” dell’ultima manovra, è un segnale d’allarme per le relazioni industriali e per l’idea stessa di sviluppo anticrisi. Intanto, si capisce che le scelte imprenditoriali di Marchionne sono tutte legate allo sviluppo dell’anima americana del gruppo, relegando le fabbriche italiane alla produzione di auto su progetti Chrysler, come le jeep e le monovolume. Riportare l’ordine negli stabilimenti, cancellando tutte le conquiste sindacali che altrove, in Europa, stanno invece aiutando a riavviare lo sviluppo e l’occupazione.
“Amerikanizzare” il sistema Italia, facendo tornare indietro la ruota della storia è contro le stesse teorie dell’economia liberista. Ma Marchionne e i suoi più stretti collaboratori sembrano non aver capito nulla delle lezioni di economia reale, che hanno decretato come il “Sistema Amerikano” sia fallito del tutto, infettando come un virus malefico il resto del mondo occidentale. L’America di Obama si sta avvitando in una decadenza economica, politica e morale, in cui la supremazia dei media ha grande causa, tanto da far lievitare un movimento razzista, protezionista, imperialista e antistatale, come i “Tea Party” repubblicani. I più influenti finanziatori della campagna presidenziale di Obama oggi gli hanno voltato le spalle, mentre la sua amministrazione perde consensi perché incapace di imprimere una svolta progressista come era nelle premesse.
Se Obama fallisse la rielezione, molte nubi si addenserebbero sull’Europa e sul resto del mondo, vista la politica militaristica e interventistica dei Repubblicani, sull’esempio storico delle amministrazioni Bush. L’unica reazione popolare alla crisi che attanaglia gli USA è per ora il movimento degli “Indignati” che protestano contro Wall Street: i soli che alzano la voce contro la deriva reazionaria dei “Tea Party”. In Italia, per ora, tanti movimenti gli uni separati dagli altri scendono in piazza contro il governo Berlusconi, senza però riuscire a creare un “fronte unito”. 17 anni di berlusconismo hanno diviso le coscienze e le forze sociali, per primo i sindacati confederali. Su questa divisione ha avuto finora buon gioco Marchionne e chi tra gli imprenditori ha scelto la via della cancellazione strisciante dello Statuto dei Lavoratori, delle garanzie costituzionali, battaglia portata avanti dal ministro Sacconi in prima persona, preso da un furore anti-CGIL che sa di paranoia più che di scelta ideologica.
Marchionne non propone una soluzione industriale alla crisi decennale della FIAT, ma una ricetta ideologica, forse buona per gli Stati Uniti, dove lo stato, insieme a quello canadese ha finanziato abbondantemente la Chrysler a tassi vantaggiosi. Certo inutile e recessiva per l’Italia, dove vengono mortificate le capacità creative e produttive di una classe metalmeccanica che ha imposto nel mondo dell’auto stili e tecniche di avanguardia. Sposare acriticamente le scelte di Berlusconi, proprio quando quest’ultimo si sta avvitando in un vortice autodistruttivo e il suo regime è alla deriva, rischia di portare a fondo anche l’unica grande industria storicamente identificabile con i destini dell’Italia. “Quello che è buono per la FIAT è buono anche per l’Italia”, diceva con orgoglio un tempo l’avvocato Agnelli. Altri tempi, altri uomini, altre idee…un secolo fa!