di Gianni Rossi
Con l’Italia “sorvegliata speciale” dalle maggiori istituzioni internazionali (FMI, BCE, Commissione Europea), a causa del suo immenso debito pubblico e per l’inaffidabilità del governo guidato dal “portatore sano di conflitti di interessi”, Berlusconi, una nuova pagina della guerra mondiale finanziaria si apre minacciosa. Un paese membro autorevole del G8, fondatore della Comunità europea e dell’Eurozona, rappresentata spesso al top dei principali organismi mondiali, è di fatto trattato come una delle tante nazioni africane cronicamente in crisi di bilancio e in perenne default. Certo, non è la prima volta, ma oggi lo scenario è cambiato. Nel bel mezzo della più grande crisi del capitalismo avanzato, nel pieno della disfatta del sistema economico e finanziario basato sull’iperliberismo e il monetarismo più sfrenato, l’Italia rischia di restare schiacciata per sempre dai suoi “vecchi compagni” di strada, che dal Dopoguerra in poi ne avevano condiviso fortune e disgrazie, ma soprattutto insieme avevano spinto l’Europa ad essere un continente ricco di opportunità, di innovazione e in grado di competere sui mercati con la superpotenza americana.
Da oggi, non sarà più così! Il nostro paese, anche quando dovesse uscir fuori dalla crisi dei debiti sovrani e del sistema economico-industriale, resterà comunque un “malato cronico” da sottoporre ad una qualche terapia di controllo. Una convalescenza che peserà sull’autodeterminazione dei nostri destini politici, con qualsiasi maggioranza al governo, di sinistra o di destra che sarà. Ecco, dove il regime Berlusconi ha colpito a fondo le radici del paese, per una volontà distruttiva di non abbandonare il potere, in quanto l’ombrello politico lo preserva da sicuri destini giudiziari e da eventuali dissesti delle sue società. Ma il danno per l’Italia è fatto: “Dopo Berlusconi il diluvio”, dunque! Anche se il popolo saprà scegliere nelle imminenti elezioni una nuova classe dirigente, in grado di far risollevare i nostri destini.
Ma chi e come dovrà pagare i conti in una sede istituzionale dei danni provocati ai bilanci dei singoli stati dell’Eurozona? Basterà appellarsi alla responsabilità politica e al diritto/opportunità dei popoli amministrati di far valere le loro ragioni attraverso libere elezioni? E’ forse l’ora di cambiare il sistema delle responsabilità etiche e civili di chi governa nei confronti dei governati, oggi che siamo entrati nell’era della “NetDemocracy”, la democrazia della Rete?
La decisionalità di un popolo per modificare leggi o cambiare maggioranze di governo finora risiedeva su due strumenti purtroppo usurati dal tempo e dalla crescente disaffezione nella politica: le elezioni e i referendum. A questi vanno aggiunti altri due, più sociali, di “movimento”: gli scioperi e le manifestazioni di piazza. L’irruzione del WEB e l’uso massiccio dei media come “arene virtuali” del processo politico democratico hanno però modificato la percezione stessa della politica vissuta, partecipata. Tre i casi che ultimamente hanno modificato questa “percezione della politica attiva”.
Il primo viene dalla lontana e piccola Islanda e si collega direttamente agli inizi della crisi finanziaria del 2008. Un popolo esiguo decide per referendum di non pagare le banche che avevano portato alla fallimento i conti dello stato; quindi hanno ottenuto elezioni anticipate, cambiando fortemente l’assetto della maggioranza, a favore dei partiti di sinistra, riformati e cambiati. Infine hanno dato vita ad una Costituente per modificare profondamente i cardini della Costituzione islandese. E questo è accaduto nel paese occidentale più “cablato” e internettiano del mondo!
Secondo caso è quello della Grecia, dove invece, una classe dirigente di destra per anni ha truccato i conti pubblici, alleggerendo le casse dello stato con una politica di assunzioni clientelari e di opere fasulle, fino a portare al disastro odierno Atene. Anche lì il popolo ha cambiato la maggioranza con libere elezioni il governo, premiando i socialisti, che però hanno ereditato una situazione fallimentare. Ecco,dunque, che di fronte a draconiane ricette di “risanamento” indotte e controllate dalle istituzioni internazionali, il governo Papandreu ha cominciato a chiedere “lacrime e sangue” al popolo ellenico, il quale a sua volta ha cercato di ribellarsi dando vita ad una fase di rivolta sociale senza eguali in Europa: scioperi continui, manifestazioni quasi quotidiane, scioperi generali che per giorni hanno bloccato qualsiasi attività. Risultato? Il governo ha continuato lungo la sua strada, le istituzioni sovranazionali hanno insistito con le esigenti e strangolanti misure di austerity. Si è arrivati anche alla “minaccia” di Papandreu di indire un referendum per chiedere alla popolazione, stremata da un anno e più di manifestazioni e sacrifici, di esprimersi sulle ultime richieste di “risanamento doloroso”. E’ stata una mossa politica fatta rientrare dai “Grandi” del G20, preoccupati più per le reazioni dei mercati che per l’effettiva riuscita della consultazione popolare, scontata nel suo esito contrario ai desiderata di Bruxelles e del Fondo Monetario.
Da ultimo, c’è il caso degli Indignati di mezzo mondo, a cominciare dalla Spagna per finire con gli Stati Uniti, dove da quasi due mesi, una nutrita pattuglia di contestatori presidia una piazzetta antistante la Borsa di Wall Street. Manifestazioni in tutto il mondo degli Indignati, chiamati a raccolta attraverso la Rete non hanno comunque spostato di una virgola le decisioni di stretta congiunturale e di rigoroso monetarismo, prese dai vari organismi mondiali. Ma tutti questi movimenti, dall’Islanda, alla Grecia, a Madrid, New York e Roma, hanno evidenziato che esiste un’altra politica, che la gente esige forme e contenuti diversi per essere amministrata, oltre ad esigere una classe dirigente e a forme di organizzazione politica totalmente modificate.
Ecco allora che diventano ineludibili alcune domande, quantomeno l’inizio di un dibattito in Rete e tra gli intellettuali della sinistra non omologata: servono nuovi strumenti decisionali per cambiare e gestire “la cosa pubblica”? E’ ancora valido il “diritto all’irresponsabilità” dei politici per la loro attività di amministratori ai vari livelli, una volta che avessero creato danni, “rattoppati” con i soldi dei cittadini, spinto milioni di lavoratori fuori dalla produzione, bloccato qualsiasi futuro occupazionale per le nuove generazioni, ridotto allo stremo ampi strati delle classi sociali povere e medie?Quella dell’irresponsabilità dei politici è una forma di guarentigia che esiste dall’Ottocento ed è stata utilizzata proprio per garantire, specie ai “rappresentanti” delle classi popolari, la libertà di azione e di opinione, per non utilizzare gli strumenti dei codici civili e penali come surrogati della battaglia politica. Insomma come baluardi della democrazia.
Ma veniamo al caso Italia: un capo del governo plurinquisito, condanno in primo grado, coinvolto in scandali morali e non solo, incapace di governare e che sta portando il proprio paese sull’orlo della crisi finanziaria ed economica, è inamovibile. Sfruttando tutti i mezzi e mezzucci messi a disposizione dalla democrazia costituzionale, è riuscito finora a sconfiggere tutti gli assalti delle opposizioni e le reprimende delle istituzioni internazionali. Berlusconi è sempre lì, a Palazzo Chigi, i magistrati in trincea, i partiti dell’opposizione sui banchi del Parlamento ad incalzarlo senza ottenere un briciolo di risultato, la gente, l’opinione pubblica, anche quella che lo aveva votato, impossibilitata a farsi ascoltare e a modificare il senso delle cose. Anche il ricorso alla “piazza” sembra non scalfirlo. L’avvento, poi, di un “Protettorato” europeo e americano sul nostro paese è quanto di più pericoloso si possa pensare per il futuro. Il rischio di diventare una “colonia” franco-tedesca e di restare gli invitati “col cappello in mano” nei prossimi vertici internazionali è concreto e foriero di un declassamento economico e finanziario sui mercati.
S’impone quindi una riflessione sulle responsabilità dei governanti. Possono rispondere in sede civile e penale dei disastri arrecati al “bene pubblico”, come avviene per chi amministra dolosamente una grande azienda? E’ forse questa via una surroga al sistema democratico? E se si elaborasse un “Codice etico di comportamento”, una sorta di Decalogo, cui tutti i politici eletti al Parlamento e nelle amministrazioni locali dovrebbero attenersi, pena la loro decadenza dagli incarichi pubblici? Con un “Gran Giurì”, una sorta di Autorità terza, come la Corte Costituzionale riunita in Tribunale dei ministri (vedi il caso Lockeed negli anni Settanta), a giudicare quei comportamenti e a sentenziare? Esiste, certo, un pericolo di sconfinare nel “Giacobinismo”, in un clima da “Terrore”, di “Purghe staliniane”, ma la misura è colma e il mondo corre su altri binari della storia.