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Articolo 21 - Editoriali
Giorno della Memoria. La Recessione economica spinge verso una nuova Shoah?
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di Gianni Rossi

 

Quanti ancora ricordano il dramma della Shoah, che colpì l’intera Europa dalla fine degli anni Trenta fino al 27 Gennaio del 1945? Quei 6 milioni di ebrei sterminati nei lager nazisti sembrano ancora oggi “camminare nel fumo”, trasportati lontano dai venti del Nord-Est, mentre il “vecchio continente” si richiude in se stesso, nei propri egoismi nazionalistici, ferito a morte dalla crisi economica, preda di sirene politiche, culturali e ideologiche che antepongono l’individualismo sfrenato rispetto allo spirito di solidarietà, quello stesso che ci aveva portato 65 anni di pace, sviluppo e benessere. Un’Unione Europea sempre più preda di oltranzismi e nuovi razzismi, di reciproci sospetti tra nazioni che per secoli si sono guardate in cagnesco e che ora sono spinti dalla Recessione verso uno spirito di rivalsa, cercando di “far pagare” agli stati più deboli i pesi maggiori della crisi. Stiamo vivendo un clima da “Terza guerra mondiale”,  come scriviamo da mesi, ma si tratta di un conflitto per ora senza armi tradizionali, guerreggiato a colpi di “dominanza finanziaria”, di determinazione iperliberista contro vaste categorie sociali e contro l’idea regina che portò l’Europa ai livelli pre-crisi 2008: il welfare diffuso.

Chi è contro la marea montante dell’iperliberismo viene ostracisticamente tacciato per incompetente, sfascista, statalista, garante di privilegi, oscurantista, addirittura neo-conservatore di sinistra. E’ una campagna mediatica internazionale che parte dall’altra riva dell’Oceano Atlantico, spinta dai venti della Rete, rinfocolata dai più autorevoli giornali dell’establishment economico-finanziario, e che si espande sull’intera comunità intellettuale europea, guadagnando spesso anche i favori di una certa sinistra ormai dedita solo ad emulare il peggio del liberismo.

 

Ha dunque senso ricordare la Shoah, oggi? Le assonanze tra la crisi che viviamo e quella che portò allo scoppio della tragica Seconda guerra mondiale sono molte e preoccupanti.

Anche agli inizi degli anni Trenta, gli Stati Uniti e l’Europa erano sprofondate in una  Depressione devastante, che colpiva i corpi e gli animi non solo della povera gente, ma anche delle classi medie, ed acuiva i contrasti sociali, cercando di identificare nell’ebreo (commerciante-usuraio, intellettuale o “padrone delle ferriere”) uno dei principali colpevoli di quello stato di cose. Erano loro, con i massoni e con i comunisti sovietici, i “padroni della finanza”, gli “affamatori”, i “distruttori della morale e delle famiglie”, coloro che volevano “rubare il pane, la casa e il lavoro” ai poveri cristi e ai borghesi benpensanti. Oggi, non si usano parole così brutali, “primitive” (sono rimasti a farlo solo la Lega Nord in Italia, i partiti neofascisti nell’Est Europa, come in Ungheria, e quelli neoconservatori in Francia, Finlandia, Olanda), ma si creano le condizioni mediatiche per far accrescere il consenso contro l’Unione europea, l’Euro, le istituzioni comunitarie, i leader di alcuni stati a volta visti come “affamatori” o “rigoristi” nei nostri confronti. Sono loro i “nuovi ebrei”!

 

Si cerca di far dimenticare le vere colpe e i responsabili della Crisi, che hanno nomi ben chiari: capitalismo saturo, iperliberismo monetarista, finanziarizzazione dell’economia, ristretti gruppi di potere imprenditoriali e mediatici (140 in tutto è stato calcolato), che determinano anche le scelte elettorali di gran parte dei popoli. La democrazia, così come l’abbiamo ereditata dai filosofi di fine Ottocento, riformata dalle lotte politiche e sociali a inizio novecento e poi da alcuni grandi leader politici europei del Secondo Dopoguerra, non è più in grado di sostenere i cambiamenti sociali e culturali negli stati occidentali più sviluppati. Al tramonto delle “ideologie forti” si è sostituito il “pensiero debole” trasversale, che da destra a sinistra ha conquistato le coscienze: dal senso dello stato, visto come bene collettivo, si è passati al senso del bene individuale, privatistico. Arricchirsi ad ogni costo, usando scorciatoie di qualsiasi tipo, è ritenuto positivo, meglio se alle spalle degli altri. Il lavoro non è più un mezzo per evolversi e liberarsi, ma uno strumento per fare denaro nel più breve tempo possibile.

Ecco, dunque, che anche alcuni concetti universali come la tolleranza, la solidarietà, il rispetto delle diversità si vanno scolorando fino ad appassire e tornano “le ideologie primitive” con il loro corollario di violenza individuale e collettiva.

 

Con la Recessione, e a seguire la Depressione, si instaura nelle coscienze delle masse più sensibili ai messaggi mediatici distorti il senso di impotenza per cambiare con il sistema democratico lo stato delle cose; non si cerca più la solidarietà di classe né si tenta la creazione di “un blocco sociale”, ma si innescano le condizioni di “ribellione sanfedista”, antipolitica, si dà la caccia ai “diversi” e agli “untori”, coloro che sarebbero le cause prime della crisi, magari accusandoli di essere “poteri forti”, membri della “casta”.

Rispetto agli anni Trenta del secolo scorso non esiste un punto di riferimento alternativo al sistema capitalistico, come era l’Unione sovietica di Stalin, contemporaneamente spauracchio per i sistemi democratici liberali e “stella polare” di riferimento per il proletariato e l’intellighenzia di sinistra.

Assistiamo da alcuni anni, inoltre, ad un tentativo massiccio di revisionismo storico, che cerca di accomunare lo stalinismo sovietico con il nazifascismo, di attenuare le colpe delle dittature di destra come responsabilità delle élite nazifascista, di Hitler, Mussolini e la cerchia stretta dei gerarchi tedeschi e italiani. Si cerca di ridimensionare l’entità dello sterminio degli ebrei, dei Rom, dei dissidenti politici, degli omosessuali, degli slavi. Si tenta di attribuire alla Resistenza antifascista italiana un significato di guerra civile, giustificando quindi “i ragazzi” della Repubblica di Salò come patrioti, che forse sbagliarono ma che si battevano anche loro per l’indipendenza dell’Italia, contro il “tradimento” dei Savoia.

 

Ma la follia del “pensiero debole” sta conquistando anche gli eredi di quanti furono le vittime designate della Shoah, nel momento in cui una parte preponderante della comunità ebraica italiana si schiera con la destra berlusconiana, per paura della sinistra, ritenuta troppo filo-palestinese e non in grado di sostenere la politica di Israele, oltre che propugnatrice di una linea economica non iperliberista.

Si tratta dello stesso errore politico e culturale che portò gran parte della comunità ebraica in Germania, ma anche in Francia, in Polonia e in Ungheria ad abbandonare le storiche posizioni di sinistra, perché atterrite dall’espandersi del leninismo e dalle prime persecuzioni staliniane contro gli ebrei russi, per rivolgersi verso posizioni neoconservatrici, addirittura simpatizzando con i partiti nazifascisti. Tutta una letteratura ebraica, opera di quelli che sopravvissero alla Shoah, testimonia come gli ambienti della ricca borghesia ebraica, sentendosi legati ai destini della loro patria (Germania, Francia, Italia, Ungheria, Polonia, ecc.) e non essendoci ancora forte il richiamo di uno stato libero di Israele (solo il movimento sionista, allora minoritario ed egemonizzato dalla sinistra, lo propagandava e organizzava viaggi “della speranza”), parteggiasse per i regimi dittatoriali, minimizzando i pericoli del razzismo. L’anticomunismo, l’adesione al sistema capitalistico liberale, la banalizzazione delle idee raccolte nel Mein Kampf hitleriano, non impedirono comunque che anche gli esponenti delle classi alto borghesi ebraiche finissero nei lager.

 

Oggi, in Germania e in Francia le stesse comunità ebraiche stanno tentando di analizzare senza pregiudizi quel periodo storico, guardando anche all’interno degli errori commessi dal “popolo eletto”, dopo decenni di oblio e di forzato silenzio su quei comportamenti incomprensibili. Vengono organizzate mostre che “riabilitano” grandi letterati ed intellettuali a suo tempo messi ai margini della comunità ebraica: una vasta letteratura apre uno squarcio su quegli anni certamente duri e conflittuali. In Italia, purtroppo, questo movimento storico-culturale non riesce ad affermarsi e così sono predominanti ancora le posizioni filo-israeliane, oltranziste, che spesso si riduce nella difesa tout court della politica dello stato di Israele: tutto il resto è “antisionismo”!

Questo trova agio anche nelle posizioni di facciata di una certa destra che per legittimarsi fa pubblica ammenda degli “errori storici” del fascismo, ma poi difende i repubblichini di Salò e onora la memoria di personaggi come Giorgio Almirante e Mirko Tremaglia.

 

Storicamente, purtroppo, quando le crisi economiche sfociano nelle ribellioni sociali, nell’impoverimento progressivo anche delle classi medie e i fenomeni di razzismo crescono inesorabilmente (prima contro gli extracomunitari africani, sudamericani e asiatici, poi contro i “diversi”) e riprendono forza gli atti contro i simboli dell’ebraismo e il revisionismo storico si impadronisce anche delle classi politiche al potere, la comunità finanziaria ebraica si schiera con l’establishment e con le forze della conservazione. Accade così che le tensioni sociali sempre più “sanfedistiche” e impolitiche aumentino e che i “poteri forti”  tendano a ribaltare i sistemi democratici, usando scorciatoie legali e mezzi finanziari, soffiando sul fuoco con i loro sterminati media.

Ecco allora che la lezione storica del dramma della Shoah si perde nella notte dei tempi e la comunità libera, democratica, europea, dopo quasi 70 anni di pace e progresso rischia di rigettarsi nel burrone dell’oblio e della tragedia.

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