di Gianni Rossi
Quando se ne vanno i “Grandi Vecchi” è come se si perdesse il proprio nonno. Quell’uomo con la voce incerta, i ricordi lontani sempre vivi, le incertezze della memoria recente, il desiderio di essere ascoltati e la volontà di ripetere concetti e insegnamenti con meticolosa precisione.
Ecco, con la scomparsa del Presidente merito della Repubblica, Scalfaro, le sensazioni private si mischiano alle espressioni pubbliche di condoglianza. Scalfaro è stato un personaggio politico che ha vissuto tre vite: la prima da dirigente dell’Azione Cattolica, antifascista, giovanissimo membro dell’Assemblea Costituente per il Partito Popolare. E anche integerrimo magistrato che partecipò ai Tribunali speciali contro i collaborazionisti fascisti. Si fece conoscere come esponente della destra democristiana e fustigatore dei costumi “rilassati”, contro chi oltrepassava il “comune senso del pudore”, in sintonia con la sua visione integralista della fede cattolica.
Quindi, il secondo Scalfaro è l’uomo di governo, il democristiano atipico, che diventa ministro dell’Interno nel governo Craxi, ma che non condividerà mai appieno la politica craxiana imperante e travolgente.
In quella veste lo incontrai e l’intervistai al Viminale. Ero piuttosto guardingo, per via della sua fama di anticomunista e cattolico integralista (aveva contrastato i referendum sul divorzio e l’aborto con veemenza). Ma la sorpresa fu grande nello scoprire un uomo di governo che ti riceveva nella stanza del potere reale (il Viminale è davvero un “luogo speciale”) in maniche di camicia, con le bretelle colorate e una cordialità non comune. Tra un domanda e una risposta senza reticenza, Scalfaro faceva ricorso anche alle battute su altri esponenti democristiani. Primo fra tutti il suo predecessore, Cossiga, sul quale espresse giudizi taglienti e ne ricordò le manie e i comportamenti da appassionato di servizi segreti e di associazioni più che riservate. Espresse tutta la sua disapprovazione contro le deviazioni paramassoniche, come la Loggia P2 (era ancora vivissimo lo scandalo), tanto da aver avviato un meccanismo di pulizia interna agli organi di sicurezza.
Qualcuno si è dimenticato però che in quel decennio Scalfaro fu anche l’autorevole ed autonomo presidente della Commissione d’inchiesta sul malaffare nella gestione dei fondi pubblici per la ricostruzione delle zone terremotate dell’Irpinia. Un atto di accusa di un cattolico puro e perbene contro la classe dirigente dell’epoca, specie contro la commistione affaristico-politica di esponenti democristiani e socialisti con gli ambienti del malaffare. Per questa sua “colpa” fu ovviamente messo da parte, fino a quando non fu nominato Presidente della Camera.
E poi c’è il “terzo” Scalfaro, quello che dal 1992 ai giorni nostri ce lo ha fatto amare piano, piano, facendolo diventare un “Padre della Patria”, fuori dagli schemi, come Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, solo per citarne alcuni. E furono proprio i Radicali del divorzista e abortista Pannella a proporlo per uscire dall’impasse tra Forlani e Andreotti, proprio a ridosso della strage di Capaci, dove la mafia ormai antistato oltraggiò la storia uccidendo il giudice Falcone, sua moglie e la scorta.
Capo dello stato in piena epoca di Tangentopoli, di crisi dei partiti storici e della finanza pubblica italiana, Scalfaro seppe dirigere con inaspettata capacità l’orchestra stonata della politica italiana. Nominò due presidente del consiglio “tecnici” come Amato e Ciampi. Seppe gestire la crisi di governo provocata dalla Lega di Bossi contro il Berlusconi allora “odiato” dal leader lumbard, nominando un esponente del passato governo berlusconiano, il “tecnico” Dini.
Fu sempre guidato dalla luce cristallina del faro chiamato Carta Costituzionale. “Io non ci sto” divenne il leitmotiv del suo settennato. Da Scalfaro in poi è cambiato il ruolo pienamente autonomo del presidente della Repubblica (già in parte irrituale fu il settennato del presidente Pertini, ma non per le scelte politiche). Ed il suo esempio è stato fin qui seguito dai suoi successori, Ciampi e Napolitano.
Il suo ritorno nell’agorà della politica, come senatore a vita, come “Padre nobile” costituente fu una sorpresa per tutti noi, impegnati a resistere, resistere, resistere contro la deriva berlusconiana. Ecco, quindi, lo Scalfaro amato dal popolo della sinistra, il divulgatore della Costituzione, il difensore dei diritti civili, della laicità dello stato, pur restando un cattolico rigoroso. Diventa il “nonno pubblico” che racconta la storia dell’Italia ai nipotini di tutte le età ed è riamato per questa sua dedizione: lo Scalfaro che addirittura simpatizza per Articolo 21 e ne onora la tessera con i suoi interventi puntuali e fuori dalle ritualità. La sua partecipazione sempre vissuta con passione dal pubblico di ogni età e di ogni tendenza culturale ed ideale, quando negli ultimi anni andava da una parte all’altra d’Italia per testimoniare la sua difesa della Costituzione e la sua avversione al berlusconismo imperante.
Era così “anomalo” sia come politico sia come uomo delle istituzioni, che anche nei comportamenti della vita quotidiana cercava di non far pesare il suo ruolo. Me lo ricorderò sempre quando, da Presidente della Repubblica, alcune volte di sera tardi, molto dopo la chiusura dei negozi, si recava dal dentista vicino casa mia. Scorta discretissima, senza appariscenza, scendeva dall’auto e saliva nello studio dentistico. Se qualcuno lo riconosceva, gli stringeva la mano, scambiava qualche battuta e quindi di nuovo via senza sgommature di sorta.
Anche per questi piccoli comportamenti da “uomo in grigio”, da “vecchio signore piemontese”,
come avrebbe amato definirlo un altro grande piemontese come Giorgio Bocca, da combattente liberale e anche fervente cattolico, autonomo dai richiami della gerarchia ecclesiastica, Scalfaro si è guadagnato per me il titolo onorifico di “nonno” di tutti noi italiani liberi.