di Fernando Cancedda*
L'articolo 18 non è un tabù. Considerata l'incidenza effettiva nella realtà aziendale, se ne parla e discute anche troppo. Se lo si fa dunque è solo perché, da almeno un decennio, è divenuto un simbolo e una prova di forza: per milioni di lavoratori (come quelli che il 23 marzo del 2002 invasero le strade di Roma), ma anche per i datori di lavoro o chi li rappresenta. E ora pare perfino per gli investitori esteri, se è vero che la sua riforma varrebbe “200 punti di spread”, come dicono le ultime fantasie di stampa. Viene il sospetto che oggetto del contendere non sia tanto la norma in vigore quanto il valore attribuito alla sua “manutenzione” dalla destra politica, confindustriale o “tecnica” : gli investimenti ci saranno solo se il sindacato, perdendo la partita, si dimostrerà più debole. Insomma, una specie di bollo di Stato alla filosofia di Marchionne. Con buona pace di chi pensa ancora all'economia come scienza .
In questa crisi, in Italia come altrove nel mondo, i veri tabù sono altri: il mito della crescita globale illimitata nell'ambito di un sistema economico profondamente dipendente da risorse sempre più limitate: petrolio e altri combustibili fossili; un capitalismo finanziario che prende in ostaggio l'intera popolazione del pianeta e ne fa dipendere la vita da oscillazioni di borsa che non hanno alcun rapporto con l'economia reale; la catastrofe ambientale imminente e forse già cominciata; il destino precario di un mondo e di una società che presentano diseguaglianze crescenti. Temi vitali, che nonostante l'allarme di economisti e scienziati di valore, politica e mass media continuano a trattare come questioni accademiche, buone solo per convegni e ordini del giorno.
Presto saranno i fatti a rendere evidente a tutti che il sistema economico attuale, se non si provvede, sia pur gradualmente, a mutamenti radicali, è destinato a crollare. Per Jeremy Rifkin, economista ed ecologo americano di fama internazionale, l'inizio della fine dell'era dei combustibili fossili ha già avuto luogo nel luglio del 2008, quando il prezzo del petrolio nei mercati mondiali raggiunse il massimo storico di 147 dollari al barile. Il crollo dei mercati finanziari, sessanta giorni dopo, “non è stato che una scossa di assestamento”.
La Terza rivoluzione industriale (TRI) – scrive Rifkin nel libro omonimo pubblicato in ottobre da Mondadori – non è un'utopia ma “un piano economico pragmatico e senza orpelli che potrebbe farci accedere a un’era postcarbonio”. Riassumere oltre trecento documentatissime pagine è davvero impossibile. Mi limiterò a qualche accenno. L'autore, presidente della “Foundation on economics trends” di Washington, ha dedicato gli ultimi trent'anni della sua vita professionale alla ricerca di un nuovo paradigma economico e alla metà degli anni novanta pensava che “fosse ormai prossima una nuova convergenza fra comunicazione ed energia: la tecnologia di Internet e le energie rinnovabili si sarebbero fuse per creare una nuova, potente infrastruttura...”.
“Come ogni altra infrastruttura energetica e di comunicazione nella storia - spiega in seguito - la Terza rivoluzione industriale deve fondarsi su pilastri eretti simultaneamente: in caso contrario, le fondamenta non reggono. Questo perché ogni pilastro può funzionare solo in relazione con tutti gli altri.
“I cinque pilastri della Terza rivoluzione industriale sono: 1) il passaggio alle fonti di energia rinnovabile: 2) la trasformazione del patrimonio immobiliare esistente in tutti i continenti in impianti di micro generazione per raccogliere in loco le energie rinnovabili; 3) l’applicazione dell’idrogeno e di altre tecnologie di immagazzinamento dell’energia in ogni edificio in tutta l’infrastruttura, per conservare l’energia intermittente; 4) l’utilizzo delle tecnologie Internet per trasformare la rete elettrica di ogni continente in una inter-rete per la condivisione dell’energia che funzioni proprio come internet; 5) la transizione della flotta dei veicoli da trasporto passeggeri e merci, pubblici e privati, in veicoli plug-in e con cella a combustibile che possano acquistare e vendere energia attraverso la rete elettrica continentale interattiva”.
Rifkin e la sua organizzazione - di cui fanno parte esperti di imprese come IBM, Philips, Schneider, General Eletrics, Siemens e altre - hanno avviato in questi anni contatti e accordi di collaborazione con i massimi dirigenti politici europei e di altri continenti, da Barroso alla Merkel, a Prodi, da Zapatero alla Clinton. Sono già stati realizzati “master plans” per il Principato di Monaco e le città di Roma e Utrecht. Ma mi rendo conto di come sia difficile, solo sulla base di queste semplici indicazioni, far capire la novità e la concretezza di questi progetti, anche per chi intende passare da una crescita economica senza limiti alla concezione di uno sviluppo economico sostenibile.
Dal capitalismo gerarchico, “verticale”, al capitalismo “distribuito”. “Se l’era industriale - scrive Rifkin - poneva l’accento sui valori della disciplina e del duro lavoro, sul flusso dell’autorità dall’alto in basso, sull’importanza del capitale finanziario, sul funzionamento dei mercati e sui rapporti di proprietà privata, l’era collaborativa è orientata al gioco, all’interazione da pari a pari, al capitale sociale, alla partecipazione a domini collettivi aperti, all’accesso alle reti globali”.
Soltanto così, secondo Rifkin, questa crisi planetaria del 2012 potrebbe e dovrebbe essere superata. “La Terza rivoluzione industriale continuerà a evolversi nei prossimi decenni e, probabilmente, raggiungerà il picco intorno al 2050, per arrivare allo stadio di maturità nella seconda metà del secolo”.
“Se esiste un piano B – conclude – fatemelo sapere”.