di Filippo Vendemmiati
“Isidro Luciano Diaz è vivo, questa è l’unica differenza con gli altri casi di violenza di cui mi sto occupando”. L’avvocato Fabio Anselmo sta seguendo anche questa storia, dopo i precedenti tragici che portano i nomi di Riccardo Rasman, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi. Sono tutte persone decedute e non hanno potuto parlare, sono morte dopo aver incontrato le forze dell’ordine, polizia o carabinieri. Diaz, invece, argentino, 41 anni, da 23 anni in Italia, ha potuto lui stesso mostrare le lesioni sulla schiena e le tumefazioni agli occhi, per le quali è già stato operato per il distacco della retina. “Luciano Diaz ha raccontato la sua verità ad un giudice che ora deve decidere se le accuse sono fondate e se occorre avviare un’indagine”.
Quali sono gli elementi che secondo lei possono avviare un’indagine penale nei confronti dei carabinieri che il 5 aprile scorso hanno fermato Diaz in auto vicino a Voghera?
“Alcune modalità, le solite, lasciano molti dubbi. Il tipo di lesioni subite dall’uomo, secondo il medico legale, sono compatibili con un’aggressione violenta, protratta nel tempo, poi c’è l’oggettivo ritardo nelle cure che gli sono state prestate. E’ stata negata l’assistenza diretta di un medico e questo è una circostanza gravissima, censurabile, comunque si siano svolti i fatti”.
“Il giudice dovrà valutare se archiviare o procedere sulla base di due versioni dei fatti molto differenti”.
“Sì, però, in questo caso, non c’è una vittima muta. I carabinieri raccontano che Diaz era ubriaco, è uscito dall’auto con un coltello in mano, il loro intervento è stato necessario e rapido. Occorre verificare se questa versione ha una logica, anche perché, secondo la relazione di servizio, l’uomo è stato subito disarmato con un colpo al braccio. Quindi il pericolo è subito venuto meno. Invece i colpi, i calci alla testa mentre era a terra, sono proseguiti con inaudita violenza, secondo quanto ha denunciato il mio assistito”.
Perché questi casi sono sempre più frequenti o sono invece le denunce ad essere aumentate?
“Sicuramente c’è più coraggio da parte di chi le subisce e da parte dei loro famigliari. Tutti gli altri casi di cui mi sono occupato hanno dimostrato che alla base c’era un intervento, diciamo, sbagliato, comunque andrà l’accertamento delle responsabilità penali. Sono tutte situazioni che andavano gestite diversamente, con una maggiore preparazione e competenza da parte delle forze dell’ordine. Sono casi isolati, ma sono già troppi”.
Sono sintomi di una democrazia malata?
“Fa male ammetterlo, ma lo sono. Eppure la polizia, i carabinieri sono istituzioni sane. Uno stato democratico e civile ha bisogno di loro e quando sbagliano ci si aspetta da loro la prima mossa per avviare le indagini, per scoprire che cosa è successo, e non una totale chiusura, se non un’opera di vero e propria depistaggio e copertura dei responsabili, come è avvenuto nell’inchiesta sulla morte a Ferrara di Federico Aldrovandi”.
Sono sempre stati i famigliari, i loro legali a far scattare le indagini, non c’è mai stata né un’inchiesta interna, né l’automatica e obbligatoria azione di accertamento da parte di un magistrato.
“E’ un problema culturale, la legge è uguale per tutti e deve essere rispettata anche da chi è preposto al controllo e all’applicazione delle norme. Non sempre è così, vige a volte una sorta di zona grigia dove la legge è sospesa. Le forze dell’ordine devono rispettare anche più di altri la legge, il loro obbligo-dovere è più forte di quello delle persone. Occorrerebbe predisporre meccanismi automatici per individuare errori e responsabilità.
E invece la proposta che esce dal governo va in direzione opposta. Con le legge bavaglio in vigore come sarebbero finite le inchieste di cui si sta occupando?
“Non sarebbero mai state fatte. Proibire la diffusione di atti che sono nella disponibilità delle parti e quindi sono pubblici, significa oscurare l’occhio vigile dell’opinione pubblica. La giustizia si amministra in nome del popolo italiano e il segreto istruttorio, chiamato in causa spesso a vanvera, è a salvaguardia delle inchieste e non della privacy. Chi è sottoposto alle indagini non può invocare il diritto alla privacy. Aggiungo un altro particolare grave: il divieto della registrazione. Se una persona è vittima di una concussione non può registrare chi lo ricatta o perseguita e se questo è un pubblico ufficiale non ha mezzi per difendersi. Potrebbe denunciarlo, è vero, ma la parola del pubblico ufficiale vale di più di quella del semplice cittadino, e la denuncia iniziale si trasformerebbe presto in calunnia. Ci spieghino come ci può difendere in questi casi”.
Sarà alla manifestazione del primo luglio a Roma?
Sì, ci sarò, è un’occasione troppo importante per difendere la democrazia e la giustizia in Italia.