di Marialaura Carcano
Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, magistrato simbolo della lotta contro la mafia, risponde ad alcune domande sul suo ultimo libro “Nel labirinto degli dèi” (Il Saggiatore). Una ricostruzione autentica e originale della sua esperienza di magistrato in prima linea che ci rivela il volto umano di un pm diventato per molti un eroe in un racconto che, nel ricordo, recupera la forza delle immagini e i toni della commozione e dell’ironia.
Il suo libro si chiude con un parallelo tra la famiglia e Cosa Nostra. Nelle sue dinamiche patologiche la famiglia assomiglia alla mafia?
Non c'è dubbio sul fatto che vi è una relazione fra cultura familistica e cultura mafiosa. Non è un caso che la cellula base di ogni struttura mafiosa è la "famiglia", sia essa famiglia di sangue in senso stretto ovvero "famiglia" della zona, come le famiglie di Cosa Nostra siciliana, caratterizzate dalla relazione col territorio: la "famiglia di Brancaccio", la "famiglia di Palermo Centro", la "famiglia di Trapani" e così via. Questa connotazione strutturale ha, poi, una corrispondenza con la "scala mafiosa dei valori", in quanto l'"etica" mafiosa è una forma di manifestazione del "familismo amorale", nel senso che gli interessi della famiglia, della cosca, del gruppo prevalgono sempre rispetto a qualsiasi possibilità di interazione con la comunità.
Secondo lei c'è una relazione tra questo familismo degenere italiano e la retorica della nostra maggioranza politica incentrata sul Partito dell'Amor e, su una metafora del buon padre di famiglia?
Non mi sento di stabilire relazioni del genere. Posso dire, però, che una certa degenerazione del familismo, su cui si fonda l'universo mafioso, si è diffusa per il Paese, tanto da poter dire che anche sotto questo profilo la "linea della palma" si va sempre più alzando. Il processo di mafiosizzazione dei comportamenti della nostra classe dirigente è sempre più avanzato.
Nel suo libro fa riferimento ai rapporti plurimi di paternità e dice: noi magistrati siamo figli dei nostri maestri. Lei in questo senso è figli o di Borsellino e di Falcone, che eredità le hanno lasciato?
L'eredità lasciata da Borsellino e Falcone è la più pesante da sorreggere e, perciò, sono cotento di condividerla con molti italiani, magistrati e non, che credono fortemente in valori come verità, giustizia ed eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Ciò premesso, quel che conta è che siano molti i magistrati che si riconoscono nella lezione umana e professionale di Borsellino e Falcone. Una lezione fatta di tenace ricerca della verità, organizzazione del lavoro in pool, circolazione delle informazioni, apertura verso la società per diffondere la cultura della legalità, impostazione strategica delle indagini antimafia, e tanto altro ancora...
Lei racconta dell' udienza a Palazzo Chigi nel novembre 2002 quando Berlusconi fu sentito in qualità di teste del processo a Dell'Utri. Berlusconi perse l'occasione di chiarire molti interrogativi avvalendosi della facoltà di non rispondere. Un Padre si può avvalere della facoltà di non rispondere, secondo lei?
Mai lo dovrebbe poter fare chi ha ruoli di responsabilità, familiare politica che sia. Ma, visto che la legge penale lo consente, è legittimo che il Presidente Berlusconi si sia avvalso di tale facoltà. Altra cosa è se tale scelta possa definirsi opportuna e condivisibile...
Lei racconta nel libro di padri e figli: qualcosa di sè come padre e della difficoltà e il sacrificio di questo ruolo doppio di padre e servitore dello Stato che vive blindato sotto scorta. Racconta di Massimo Ciancimino e del padre Don Vito, racconta di Rita Atria che a soli sedici anni, quasi contro tutti, decise di dire quello che sapeva dopo che suo padre fu ucciso dalla mafia. Racconta dei pentiti che si ribellano al codice di omertà della famiglia e, pur arrivandoci con motivazioni diverse, decidono di collaborare con lo Stato. Mi pare che il suo libro ci ricordi, in fondo, che lo Stato non è facilmente riducibile alla semplice metafora del Padre di famiglia perchè questo appartiene semmai al codice mafioso che presuppone che i cittadini siano a vita figli minori e che in famiglia non si arrivi mai ad essere veramente uguali di fronte alla legge
In effetti, la cultura italiana si muove sempre fra queste due opzioni alternative: l'Italia dei furbi e degli opportunisti, che perseguono gli interessi propri o del proprio clan familiare, un'Italia nella quale il Capo tratta i cittadini come sudditi, e l'Italia degli onesti - lo dico con un po' di intenzionale enfasi retorica - che, lontani da ogni forma di conflitto di interessi, cercano di dare un contributo perché il nostro Paese cresca e divenga finalmente un Paese adulto, una democrazia matura. Non resta che augurarsi che prevalga la seconda...