di Peter Freeman
Uno sciopero di tutti i lavoratori della RAI non è cosa di tutti i giorni. Chi conosce il servizio pubblico radiotelevisivo sa bene che liti e divisioni tra le varie sigle sindacali sono una costante; e sa anche quanto questo abbia pesato negativamente sulla dialettica tra lavoratori ed azienda. Questa volta è diverso. Il 10 dicembre sciopereremo tutti. Lo facciamo perché la crisi della RAI è ormai giunta ad un punto di non ritorno. Il declino del servizio pubblico è drammatico e ben evidente. L’azienda editoriale che è stata di tutto il Paese, che ne ha saputo raccontare voci e culture, senso comune e conflitti, non esiste più. Ha svenduto all’esterno la propria capacità ideativa, rinunciando alla sua autonomia culturale. Ha mortificato i suoi lavoratori appaltando alle società esterne pezzi interi di programmazione. Ha rinunciato ad investire nei suoi asset essenziali, abbandonando al degrado il suo immenso patrimonio audio-visivo. Ha scelto di inseguire un modello commerciale, venendo meno ai suoi obblighi nei confronti di tutto il Paese e di tutti i cittadini che pagano il canone - e che non vogliono essere considerati semplici consumatori ma persone titolari di diritti, tra cui quello di essere informati.
La RAI è stata un esempio virtuoso di servizio pubblico radiotelevisivo, un’azienda libera capace di produrre lavoro e cultura, che sono ricchezze essenziali per qualunque Paese. Oggi non lo è più. E’ paralizzata dal conflitto di interessi che grava sul capo del governo, ed è soffocata dall’abbraccio mortale dei partiti politici, mai come oggi invasivi e petulanti. In questi anni si è perseguita scientificamente un’opera di delegittimazione del valore del servizio pubblico radiotelevisivo nelle coscienze dei cittadini. Il risultato è sotto gli occhi di noi tutti: una RAI più debole e sempre più squalificata agli occhi dell’opinione pubblica.
La crisi in cui versa la RAI è, insieme, economica, culturale ed etica. Ad essa chi dirige l’azienda avrebbe dovuto rispondere con scelte in grado di rilanciarla, valorizzandone le risorse umane, il sapere e le conoscenze di chi vi lavora da tanti anni. Al contrario, si sono moltiplicati gli sprechi, le nomine di dirigenti, spesso scelti all’esterno e benché privi di curriculum. E’ cambiato il mercato, la concorrenza si è fatta più aggressiva, è mutato lo scenario tecnologico, ma nessuna di queste sfide è stata raccolta ed affrontata in maniera adeguata. L’indebitamento è divenuto insostenibile.
A tutto questo i vertici aziendali rispondono con un Piano industriale che non solo non affronta i nodi strutturali della crisi della RAI, ma intende scaricarne i costi sui lavoratori. Esternalizzazioni, cessione di pezzi di azienda, blocco del turn over, licenziamenti. A conti fatti, se il piano industriale presentato da Masi andasse in porto, oltre 1.300 lavoratori se ne andrebbero a casa: una decimazione. E per quelli che restano, una RAI più povera e destinata ad un ruolo sempre più marginale nel panorama radio-televisivo.
Noi pensiamo che il Paese non meriti tutto questo. Ripensare il ruolo del servizio pubblico, affrontare scelte anche dolorose, non può significare uccidere quella che è stata la principale azienda editoriale italiana. Per questo è necessaria un’inversione di rotta rispetto alle politiche editoriale ed industriali degli ultimi anni. Salvare la RAI è possibile, ma occorre una volontà che finora è mancata perché a troppi ha fatto comodo una RAI debole ed ostaggio del sistema politico.
E’ ora di dire basta ed i primi a dirlo dobbiamo essere noi, che dentro questa azienda lavoriamo. Se non ora, quando?
Vogliamo che chi lavora qui dentro sia orgoglioso del proprio lavoro, anziché vivere ogni giorno una condizione di rabbia, frustrazione ed umiliazione. Vogliamo che i giovani che scelgono di lavorare per la RAI non siano condannati ad uno stato di precarietà permanente. E chiediamo una dirigenza capace di farsi carico del futuro di questa azienda, anziché accanirsi su di essa con scelte dissennate (come il mancato rinnovo dell’accordo con Sky) o con provvedimenti disciplinari che hanno un solo obbiettivo: creare un clima di paura ed intimidazione e limitare gli ultimi spazi di libertà.
Difendiamo la Rai da chi vuole ucciderla.
Al collega “Inviato Speciale” Augusto Minzolini - di Ennio Remondino