Articolo 21 - Sguardi sul mondo
E ora chi la racconta questâItalia?
Con la scomparsa di Giorgio Bocca, se n’è andato l’ultimo giornalista partigiano; anzi, per usare una definizione a lui cara, l’ultimo “partigiano giornalista”. Aveva novantuno anni, un’età considerevole, ma questo non basta di certo ad attenuare il rimpianto per una perdita che non è soltanto umana e professionale, ma è soprattutto morale. Come ha scritto Ezio Mauro in un bellissimo ricordo su “la Repubblica”: “Il ‘magone’ dei piemontesi che vivono fuori è una specie di peso dell’anima ogni volta che si entra a Torino, o spuntano le colline delle Langhe, o torna davanti agli occhi la cerchia delle montagne, in qualunque stagione. Giorgio Bocca sorvegliava quel magone permanente per la sua terra, che aveva perso e voleva sempre riconquistare, e portava dentro di sé quei mondi cui non aveva mai rinunciato, perché erano le radici e l’identità, e un ‘posto’ bisogna pure averlo. Ma Giorgio era riuscito a trasformare tutto questo – le montagne della battaglia di gioventù, la tipografia notturna di corso Valdocco a Torino con Calvino, Pavese e Raf Vallone, Nuto Revelli che racconta nel negozio a Cuneo, i cortili delle Langhe d’estate, con Bobbio e gli altri – in un paesaggio morale che ha fatto da sfondo costante al suo giornalismo d’eccezione, dandogli forza e tenuta”.
Bastano questi nomi per comprendere le idee, i valori e gli ideali di Giorgio Bocca: la Resistenza, l’anti-fascismo (lui che pure, in gioventù, era stato fascista, come molti ragazzi della sua generazione), quello spirito partigiano e azionista che fino all’ultimo non lo ha abbandonato ed è stata la sua caratteristica più intensa, la più significativa, proprio perché da lì traeva il coraggio per indignarsi, per essere sempre una voce ruvida, stonata, fuori dal coro dell’ipocrisia e dei luoghi comuni, lontana anni luce da quell’appiattimento e quell’esasperante ossequiosità che hanno inaridito il nostro panorama giornalistico e culturale.
Ruvido, schivo, scarno, i suoi articoli erano una sorta di carta d’identità: in poche righe, emergeva tutto il suo carattere, la sua asprezza ricca di umanità, mai incline al cinismo ma, al contrario, nemica della moderna interpretazione di pragmatismo che, in realtà, è solo revisionismo storico, cancellazione di quei princìpi etici e costituzionali cui il partigiano Bocca era legato da un patto indissolubile, stipulato sui monti e nelle valli piemontesi dove combatté per restituire all’Italia giustizia e libertà.
Nella sua interpretazione del giornalismo, da cronista di razza qual era, verità, chiarezza, giustizia e libertà erano un tutt’uno, come se i sogni di gioventù si fossero saldati in maniera indissolubile con le prospettive dell’età matura. Anche per questo, a dispetto del suo pessimismo, ogni volta che leggevo un suo articolo, al pari di quelli di Biagi, rivedevo sempre l’immagine del ragazzo partigiano: l’immagine di chi non ha rinunciato, neppure in vecchiaia, a credere in un Paese migliore, di chi non si è arreso al declino e, anzi, lo ha combattuto con tutte le forze, a costo di subire attacchi e soprusi d’ogni sorta da parte di un potere autocratico e assai poco disposto a tollerare voci scomode e dissidenti.
Nel corso del ventennio berlusconiano, Bocca – che pure aveva lavorato nelle tivù di Berlusconi – era diventato uno dei massimi critici del Cavaliere e del suo modo di fare e d’intendere la politica: aveva denunciato più volte il ritorno di un fascismo che definiva diverso da quello mussoliniano ma altrettanto nocivo, se non addirittura peggiore; si era battuto con estremo vigore contro una volgarità dei toni e dei comportamenti che considerava inaccettabile; aveva intuito e denunciato prima e meglio di altri i pericoli che potevano derivare dalla permanenza al governo del Paese di un simile personaggio e della sua corte dei miracoli.
Qualcuno ha sottolineato, con una punta di malizia, come Bocca abbia commesso anche numerosi errori, alcuni dei quali incomprensibili alla luce del suo percorso successivo: dal fascismo alle iniziali simpatie per il movimento leghista, a quel cedimento alle sirene berlusconiane da cui Biagi, meno scettico ma ancora più lungimirante, si era tenuto alla larga.
È vero: Bocca ha sbagliato molto, come tutti coloro che viaggiano molto, scrivono molto, pensano e agiscono molto e, quando commettono un errore, lo compiono sempre in buona fede e per conto proprio, non per conto terzi come gli zerbini e i lacchè.
Adesso che non c’è più, mi sorge spontanea una riflessione, meno banale di quanto possa apparire: ha scelto proprio un brutto momento per andarsene, come ha sottolineato anche Valentino Parlato su “il manifesto”, ricordando che “nelle tante volte che siamo stati in difficoltà abbiamo avuto la sua solidarietà e il suo sostegno”.
Di sicuro, in questo terribile periodo di crisi e d’incertezza, Bocca sarebbe stato in prima linea accanto ai colleghi più giovani, alle testate che hanno già chiuso o che rischiano di chiudere a causa dei tagli al fondo per i finanziamenti pubblici all’editoria.
E, di sicuro, avrebbe continuato a cercare e a raccontare i fatti, schierandosi come sempre dalla parte della verità.
Mentre scrivo quest’articolo, ho sotto mano la prefazione che scrisse ad un suo libro, “Italia anno uno”, apparso per la prima volta nel 1984 e ripubblicato da “Repubblica” nel 2010, in occasione dei suoi novant’anni.
Ad un certo punto, si legge: “Anche oggi, che è passato un quarto di secolo dall’uscita di questo libro, non mi sembra che la situazione sia molto cambiata: abbiamo letto migliaia di articoli, di inchieste sulla crisi finanziaria che ci travolge, sul capitalismo sfrenatamente corrotto e corruttore di ogni idea politica, di ogni speranza di futuro decente, però non ci abbiamo ancora capito niente. Ci vorrebbe qualcuno che si metta in viaggio come ho fatto io allora o forse ancora più che questo, ancora più di un inviato ci vorrebbe un traduttore, uno che cerchi di capire e di farci capire.
Ecco, io spero almeno questo: che chi legge oggi questo libro, oltre a capire qualcosa dell’Italia di allora e di adesso, si chieda come mai nessuno si mette più in viaggio per il nostro Paese, cercando di raccontare e di far comprendere quello che è sotto gli occhi di tutti e sulle pagine di nessun giornale”.
Il sottotitolo dell’opera citata dice tutto: “Le campagne senza contadini. Le città senza operai”, una riflessione sul passato, sul presente e temo anche sul futuro del nostro Paese.
Lo aveva capito, Giorgio Bocca: se oggi siamo ridotti come siamo ridotti è anche perché troppi colleghi, di fronte alla drammatica realtà delle vicende che ci riguardano, hanno preferito a lungo far finta di niente e parlare d’altro, voltandosi vigliaccamente dall’altra parte fino a quando la crisi non ha sconvolto tutto e tutti.
Per questo ci mancherai, partigiano Giorgio, per questo continueremo a leggerti, nella speranza di sentirci meno soli nelle durissime battaglie che dovremo affrontare.
Roberto Bertoni
Bastano questi nomi per comprendere le idee, i valori e gli ideali di Giorgio Bocca: la Resistenza, l’anti-fascismo (lui che pure, in gioventù, era stato fascista, come molti ragazzi della sua generazione), quello spirito partigiano e azionista che fino all’ultimo non lo ha abbandonato ed è stata la sua caratteristica più intensa, la più significativa, proprio perché da lì traeva il coraggio per indignarsi, per essere sempre una voce ruvida, stonata, fuori dal coro dell’ipocrisia e dei luoghi comuni, lontana anni luce da quell’appiattimento e quell’esasperante ossequiosità che hanno inaridito il nostro panorama giornalistico e culturale.
Ruvido, schivo, scarno, i suoi articoli erano una sorta di carta d’identità: in poche righe, emergeva tutto il suo carattere, la sua asprezza ricca di umanità, mai incline al cinismo ma, al contrario, nemica della moderna interpretazione di pragmatismo che, in realtà, è solo revisionismo storico, cancellazione di quei princìpi etici e costituzionali cui il partigiano Bocca era legato da un patto indissolubile, stipulato sui monti e nelle valli piemontesi dove combatté per restituire all’Italia giustizia e libertà.
Nella sua interpretazione del giornalismo, da cronista di razza qual era, verità, chiarezza, giustizia e libertà erano un tutt’uno, come se i sogni di gioventù si fossero saldati in maniera indissolubile con le prospettive dell’età matura. Anche per questo, a dispetto del suo pessimismo, ogni volta che leggevo un suo articolo, al pari di quelli di Biagi, rivedevo sempre l’immagine del ragazzo partigiano: l’immagine di chi non ha rinunciato, neppure in vecchiaia, a credere in un Paese migliore, di chi non si è arreso al declino e, anzi, lo ha combattuto con tutte le forze, a costo di subire attacchi e soprusi d’ogni sorta da parte di un potere autocratico e assai poco disposto a tollerare voci scomode e dissidenti.
Nel corso del ventennio berlusconiano, Bocca – che pure aveva lavorato nelle tivù di Berlusconi – era diventato uno dei massimi critici del Cavaliere e del suo modo di fare e d’intendere la politica: aveva denunciato più volte il ritorno di un fascismo che definiva diverso da quello mussoliniano ma altrettanto nocivo, se non addirittura peggiore; si era battuto con estremo vigore contro una volgarità dei toni e dei comportamenti che considerava inaccettabile; aveva intuito e denunciato prima e meglio di altri i pericoli che potevano derivare dalla permanenza al governo del Paese di un simile personaggio e della sua corte dei miracoli.
Qualcuno ha sottolineato, con una punta di malizia, come Bocca abbia commesso anche numerosi errori, alcuni dei quali incomprensibili alla luce del suo percorso successivo: dal fascismo alle iniziali simpatie per il movimento leghista, a quel cedimento alle sirene berlusconiane da cui Biagi, meno scettico ma ancora più lungimirante, si era tenuto alla larga.
È vero: Bocca ha sbagliato molto, come tutti coloro che viaggiano molto, scrivono molto, pensano e agiscono molto e, quando commettono un errore, lo compiono sempre in buona fede e per conto proprio, non per conto terzi come gli zerbini e i lacchè.
Adesso che non c’è più, mi sorge spontanea una riflessione, meno banale di quanto possa apparire: ha scelto proprio un brutto momento per andarsene, come ha sottolineato anche Valentino Parlato su “il manifesto”, ricordando che “nelle tante volte che siamo stati in difficoltà abbiamo avuto la sua solidarietà e il suo sostegno”.
Di sicuro, in questo terribile periodo di crisi e d’incertezza, Bocca sarebbe stato in prima linea accanto ai colleghi più giovani, alle testate che hanno già chiuso o che rischiano di chiudere a causa dei tagli al fondo per i finanziamenti pubblici all’editoria.
E, di sicuro, avrebbe continuato a cercare e a raccontare i fatti, schierandosi come sempre dalla parte della verità.
Mentre scrivo quest’articolo, ho sotto mano la prefazione che scrisse ad un suo libro, “Italia anno uno”, apparso per la prima volta nel 1984 e ripubblicato da “Repubblica” nel 2010, in occasione dei suoi novant’anni.
Ad un certo punto, si legge: “Anche oggi, che è passato un quarto di secolo dall’uscita di questo libro, non mi sembra che la situazione sia molto cambiata: abbiamo letto migliaia di articoli, di inchieste sulla crisi finanziaria che ci travolge, sul capitalismo sfrenatamente corrotto e corruttore di ogni idea politica, di ogni speranza di futuro decente, però non ci abbiamo ancora capito niente. Ci vorrebbe qualcuno che si metta in viaggio come ho fatto io allora o forse ancora più che questo, ancora più di un inviato ci vorrebbe un traduttore, uno che cerchi di capire e di farci capire.
Ecco, io spero almeno questo: che chi legge oggi questo libro, oltre a capire qualcosa dell’Italia di allora e di adesso, si chieda come mai nessuno si mette più in viaggio per il nostro Paese, cercando di raccontare e di far comprendere quello che è sotto gli occhi di tutti e sulle pagine di nessun giornale”.
Il sottotitolo dell’opera citata dice tutto: “Le campagne senza contadini. Le città senza operai”, una riflessione sul passato, sul presente e temo anche sul futuro del nostro Paese.
Lo aveva capito, Giorgio Bocca: se oggi siamo ridotti come siamo ridotti è anche perché troppi colleghi, di fronte alla drammatica realtà delle vicende che ci riguardano, hanno preferito a lungo far finta di niente e parlare d’altro, voltandosi vigliaccamente dall’altra parte fino a quando la crisi non ha sconvolto tutto e tutti.
Per questo ci mancherai, partigiano Giorgio, per questo continueremo a leggerti, nella speranza di sentirci meno soli nelle durissime battaglie che dovremo affrontare.
Roberto Bertoni
Notizie Correlate
Audio/Video Correlati
In archivio
Senza confronto non si esce dal berlusconismo
Basta con questa RAI
Perché sÏ alla TAV
Via dal paese dei balocchi
Ciampi e i sogni di un giovane italiano
Un febbraio pieno di tristezza
CâĂš bisogno di RAI
Scalfaro, il galantuomo intransigente
Elogio di âAgorĂ â: la RAI che piace a noi
2011, lâanno della speranza
Dalla rete di Articolo 21