di Ibrahim Refat
Il vento della rivolta tunisina spira a est e i regimi arabi del Medio Oriente tremano. Non è invidiabile la loro posizione. La folla dei diseredati marcia decisa verso il Palazzo e il tiranno di turno prima o poi sarà costretto a sloggiare. Ora c’è uno spartiacque nella storia moderna degli arabi: prima o dopo la cacciata del dittatore tunisino Ben Ali.
Il fiore della rivoluzione incomincia a germogliare anche in società apparentemente molto sottomesse come l’Egitto. Per un giorno, il 25 gennaio, il potere egiziano è stato travolto da una protesta popolare senza precedenti. Apparentemente è soltanto l’inizio. Decine di migliaia di persone, uomini e donne, giovani e anziani, hanno protestato in tutto il paese contro: “la povertà, la disoccupazione, la corruzione e la tortura della polizia”. Così recita la pagina degli organizzatori della protesta su Facebook. La vecchia richiesta ottocentesca “pane e lavoro”.
Il bilancio di questo primo round è stato assai pesante: cinque morti, centinaia di feriti e cinquecento arresti. L’indomani il potere ha accusato i Fratelli Musulmani di aver fomentato la rivolta. E’ il solito espediente, dare la colpa agli islamici per aver carta bianca dall’Occidente per reprimere senza pietà la protesta e distanziare la media borghesia dalla rivolta.
Hussam Zaki, portavoce del ministero degli Esteri egiziano, ha garbatamente dichiarato: “Naturalmente noi consentiamo a tutti gli egiziani di esprimersi pacificamente”. Forse ha dimenticato che nel paese è in vigore da trent’anni lo stato d’emergenza. Cosa che si ricordano perfettamente quelli del ministero dell’Interno, il cui portavoce a sua volta ha avvertito: “niente assembramenti e proteste: coloro che cercheranno di farlo saranno penalmente perseguiti”. Staremo a vedere. Con otto milioni e passa di disoccupati, per i reparti antisommossa ci sarà molto da fare nei prossimi giorni. Anche perché decine di migliaia di persone dicono che vogliono proseguire la protesta fino alla caduta del trentennale regime di Mubarak.
La grandezza dell’evento del 25 gennaio sta nel fatto che nelle piazze egiziane non si sono uditi i grandi slogan tanto cari agli islamisti e nazionalisti arabi: “L’Islam è la soluzione”, oppure “A morte Israele”. La gente ha invece scandito slogan più banali come: “La carne costa 100 pound” (circa 12 euro) in un paese in cui quasi la metà della popolazione vive con meno di un euro e mezzo al giorno.
Porre degli obiettivi raggiungibili è segno di maturità. Ecco perché al contrario di quanto sostiene il potere, dietro l’incipiente protesta egiziana non c’è né Marx né Maometto.