di Domenico d'Amati
Nella manovra d'agosto, la parte dedicata alla disciplina del rapporto di lavoro (articolo 8 "sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità") ha come stella polare l'interesse del ceto imprenditoriale più retrivo, quello che persegue il profitto esclusivamente attraverso lo sfruttamento del fattore lavoro, anziché investire nella ricerca, nell'innovazione e nell'ampliamento dei mercati. Un ceto che negli ultimi anni, a giudicare dal miserabile tasso di sviluppo della nostra economia, ha avuto la prevalenza e al cui servizio, secondo il Governo, dovrebbero porsi le organizzazioni sindacali dei lavoratori per demolire il sistema di garanzie e di tutele radicato nella nostra Costituzione.
Nell'articolo 8 si distinguono due parti: la prima, più ampia, di carattere generale, dedicata al meccanismo delle "specifiche intese" che dovrebbero introdurre le innovazioni volute dal Governo e l'altra, di poche righe, diretta a blindare i contratti collettivi aziendali ottenuti da Marchionne prima del 28 giugno scorso. La prima parte ha tutta l'aria di essere un contorno diretto a rendere più digeribile la seconda, quella destinata ad avere immediati e concreti effetti. Nel suo complesso, comunque, il meccanismo varato con la manovra d'agosto e' un pasticcio normativo caratterizzato da un'evidente incostituzionalità, che il Quirinale avrebbe dovuto rilevare.
La nuova normativa prevede che buona parte del nostro diritto del lavoro possa essere riscritta mediante "specifiche intese" di portata territoriale o aziendale sottoscritte o dalle associazioni del lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o anche dalle "rappresentanze sindacali operanti in azienda". Una prima osservazione: tra le parti abilitate alla sottoscrizione di questi accordi non vengono nemmeno menzionate le organizzazioni imprenditoriali. Ciò conferma che, secondo il decreto, il confronto dovrà svolgersi essenzialmente a livello aziendale, fra l'imprenditore ed imprecisate rappresentanze dei lavoratori per le quali non e' prevista alcuna garanzia di effettiva rappresentatività. Un confronto impari, nel quale si sa chi prevarrà.
In questa sede dovrebbero essere concordate, azienda per azienda, norme relative tra l'altro agli impianti audiovisivi (per i controlli a distanza), alle mansioni del lavoratore, ai contratti a termine, all'orario di lavoro, alle collaborazioni coordinate e continuative, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e dulcis in fundo, alle "conseguenze del recesso del rapporto di lavoro". Poiché si tratta di materie già disciplinate dalla legge, con ogni evidenza il Governo intende attribuire alle "specifiche intese" il potere di derogare, anche in peggio, alle garanzie volute dal legislatore.
Ne consegue, ad esempio, che il lavoratore ingiustamente licenziato avrà diritto ad una indennità di sei mesi nell'azienda A, di dodici mesi nell'azienda B e alla reintegrazione nell'azienda C ove in ipotesi non sia stata raggiunta alcuna intesa. Un vero e proprio Far West normativo che fa a pugni con il principio di eguaglianza affermato dall'articolo 3 della nostra Costituzione. Un'abdicazione alla funzione di tutela del lavoro che l'articolo 35 della Costituzione affida alla Repubblica. A nulla giova la previsione, nel decreto legge, che le "specifiche intese" debbano essere "finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali ed occupazionali, agli investimenti e alle nuove attività".
Si tratta con ogni evidenza di una formula sacramentale destinata ad essere utilizzata per coprire i più disinvolti pateracchi, come già oggi avviene in occasione delle crisi aziendali, la cui gestione doverebbe essere controllata dal Ministero del Lavoro. L'unico a poter contrastare questo andazzo sara' il giudice del lavoro che il decreto legge, foriero di innumerevoli controversie, carica di nuovi oneri senza prevedere l'indispensabile potenziamento delle strutture del sistema giudiziario. Ne deriverà una situazione di grave incertezza che, tra l'altro, scoraggerà l'afflusso degli investimenti di capitali esteri.
Un'ultima riflessione. Il fatto che la Corte Costituzionale possa essere chiamata presto a pronunciarsi su questo tentativo di demolizione delle più elementari garanzie dei lavoratori e che il suo giudizio di incostituzionalità sia ampiamente prevedibile, non deve indurre all'attendismo. E' necessario che fin dal primo momento le forze politiche di opposizione e le organizzazioni sindacali si impegnino rigorosamente per respingere la manovra. Roma, 15 agosto 2011 Dom