Articolo 21 - IDEE IN MOVIMENTO
Maria Concetta, Lea, Giuseppina. Tre foto ed una mimosa per l'otto marzo
di Giulia Fresca
Sono tre donne coraggiose, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo e Giuseppina Pesce. Tre donne calabresi che diventano il simbolo in rosa della lotta alla ‘ndrangheta, alla illegalità ma soprattutto ai soprusi di cui, ancora, sempre più spesso si sente parlare in modo sommesso. L’iniziativa “Tre foto e una mimosa” che sta facendo il giro d’Italia passando di bocca in bocca tra tutti i politici, è stata voluta dal direttore de Il Quotidiano della Calabria, Matteo Cosenza che, basandosi su un promemoria del giornalista Giuseppe Baldessarro, corrispondente della testata dalla provincia di Reggio Calabria, ha voluto porre, alla società civile, alcune domande.
“Se bisognava stare dalla parte di qualcuno non bisognava avere dubbi: bisognava stare dalla parte dei più deboli”. Scriveva un mese fa, nel suo editoriale, Matteo Cosenza. “E i più deboli erano quelle donne che, a costo di un travaglio tremendo, alla fine avevano deciso di rompere con le loro famiglie e di scegliere la strada della legalità e della giustizia pagando per questo due volte: trovando la morte oppure ricevendo minacce per la loro vita e per quella dei loro figli, infilate con cinica perfidia in un vortice più grande della loro fragilità. Si è invocato il garantismo, ma qui bisognava garantire le persone meno garantite, quelle che con il loro coraggio avevano imboccato un cammino di redenzione anche a costo della fine più atroce. In questi giorni si discute di 'ndrangheta e della sua penetrazione nella società e nelle istituzioni calabresi: esagera chi dice, e scrive, che la 'ndrangheta non esiste ed esagera chi la vede dappertutto rischiando così di non vederla dove c'è. Le inchieste, quelle che vanno a processo e a sentenza e che si spera possano esserci anche nel prossimo futuro, ci riconducono alla realtà, ed a questa bisogna attenersi. Soprattutto occorre uno sforzo collettivo dei calabresi onesti (quanti sono? la maggioranza? una minoranza?) che devono capire che la loro azione quotidiana (in primo luogo il rispetto delle regole), insieme con l'azione dello Stato, può cambiare le cose. Devono farlo per sé ma soprattutto per i giovani che hanno diritto ad un futuro diverso in questa loro meravigliosa terra. Perché il destino di ragazzi e ragazze deve essere così tragicamente legato all'ambiente e al luogo di nascita? Che futuro diverso dal diventare 'ndranghetista può avere uno che, nato in una famiglia di 'ndrangheta e in un ambiente tollerante o complice, succhia prepotenza e illegalità come un latte materno e non riesce neanche a vedere un mondo diverso fatto di convivenza civile, di tolleranza, di rispetto, di felicità? Nascono in ambienti tristi, vivono infelici anche perché la morte dispensata senza pietà è un boomerang sempre in movimento, ed hanno un futuro amarissimo. Ecco perché dobbiamo inchinarci davanti a Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Nonostante tutto sono riuscite a capire che vivevano nel male e hanno trovato il coraggio di dire: basta, non deve andare così, noi e i nostri figli dobbiamo vivere in pace e non in una guerra perenne. Hanno pagato un prezzo altissimo, ma lo pagheranno ancora di più se saranno dimenticate e il loro esempio non diventerà un patrimonio collettivo che rigenera in bene e felicità le azioni della gente di questa terra. Calabresi, guai a voltarsi dall'altra parte e a digerire anche queste storie come un normale tran tran quotidiano. Facciamole diventare l'immagine di una Calabria combattiva e positiva, di quella bella Calabria che tutti vorremmo e che purtroppo non c'è se non nel panorama. Domani è l'8 marzo, una festa che rischia di essere tale solo per vendere un po' di mimose e scambiarsi qualche regalo o cena, ma che poi di tanto in tanto recupera la sua carica vitale. Ebbene, quest'anno ogni mimosa sia accompagnata dai volti di Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Alla 'ndrangheta militare e a quella in doppiopetto (“che sta in mezzo a noi, purtroppo”), facciamo sapere da che parte stiamo. E questa sia solo una tappa di un cammino collettivo, fatto di piccoli e grandi gesti quotidiani, che guarisca la Calabria dal male che la devasta e la riscatti agli occhi dei suoi ragazzi e del mondo”.
Un grido d’allarme senza precedenti, un appello forte al quale hanno risposto e, continuano a farlo, donne ed uomini della Calabria onesta ma anche gente delle associazioni, amministratori, testimoni di giustizia e politici. Proprio a questi però desidero rivolgere il mio pensiero. È la classe politica calabrese che manca, è quella nazionale che non si preoccupa di sollecitarla, è la società civile che ha perduto la bussola che riconduce alla strada maestra. Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo e Giuseppina Pesce non sono solo tre donne che oggi diventano un simbolo, ma solo l’emblema di una intera regione, nazione, cultura e impotenza che vige e domina i nostri tempi. Si inizia da piccoli, nelle scuole e nelle famiglie, si continua nel matrimonio e sul lavoro, si procede con innaturale “naturalezza” in ogni gesto della vita quotidiana. Non si riconoscono più i valori, non ci sono più gli assoluti. Tutto è ormai alla mercè del relativismo che porta alla mistificazione dell’opportunismo più becero di cui non sempre si è consapevoli complici. Occorre cambiare. Ma come? Se l’informazione è in mano ai potentati, se la politica si nutre di bisogno, se le donne continuano ad essere considerate dei sottoprodotti… Come? Davvero, come dice qualcuno, forse la Calabria ha bisogno di nuovi calabresi? Ha bisogno di colonizzatori che sappiano riportare le regole e ripristinare l’ordine? Credo che ciò che manchi è un profondo esame di coscienza collettivo, che porti chi ha sbagliato, e chi ha consentito che si continuasse a perpetrare uno stato di cose, a pagare andando via, definitivamente da questa meravigliosa terra. Credo, come donna e giornalista aderente ad Articolo21 e GiULiA ,che queste tre foto debbano davvero essere il simbolo di un nuovo, che deve ancora venire, al quale tutti, nessuno escluso, deve portare il suo contributo.
“Se bisognava stare dalla parte di qualcuno non bisognava avere dubbi: bisognava stare dalla parte dei più deboli”. Scriveva un mese fa, nel suo editoriale, Matteo Cosenza. “E i più deboli erano quelle donne che, a costo di un travaglio tremendo, alla fine avevano deciso di rompere con le loro famiglie e di scegliere la strada della legalità e della giustizia pagando per questo due volte: trovando la morte oppure ricevendo minacce per la loro vita e per quella dei loro figli, infilate con cinica perfidia in un vortice più grande della loro fragilità. Si è invocato il garantismo, ma qui bisognava garantire le persone meno garantite, quelle che con il loro coraggio avevano imboccato un cammino di redenzione anche a costo della fine più atroce. In questi giorni si discute di 'ndrangheta e della sua penetrazione nella società e nelle istituzioni calabresi: esagera chi dice, e scrive, che la 'ndrangheta non esiste ed esagera chi la vede dappertutto rischiando così di non vederla dove c'è. Le inchieste, quelle che vanno a processo e a sentenza e che si spera possano esserci anche nel prossimo futuro, ci riconducono alla realtà, ed a questa bisogna attenersi. Soprattutto occorre uno sforzo collettivo dei calabresi onesti (quanti sono? la maggioranza? una minoranza?) che devono capire che la loro azione quotidiana (in primo luogo il rispetto delle regole), insieme con l'azione dello Stato, può cambiare le cose. Devono farlo per sé ma soprattutto per i giovani che hanno diritto ad un futuro diverso in questa loro meravigliosa terra. Perché il destino di ragazzi e ragazze deve essere così tragicamente legato all'ambiente e al luogo di nascita? Che futuro diverso dal diventare 'ndranghetista può avere uno che, nato in una famiglia di 'ndrangheta e in un ambiente tollerante o complice, succhia prepotenza e illegalità come un latte materno e non riesce neanche a vedere un mondo diverso fatto di convivenza civile, di tolleranza, di rispetto, di felicità? Nascono in ambienti tristi, vivono infelici anche perché la morte dispensata senza pietà è un boomerang sempre in movimento, ed hanno un futuro amarissimo. Ecco perché dobbiamo inchinarci davanti a Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Nonostante tutto sono riuscite a capire che vivevano nel male e hanno trovato il coraggio di dire: basta, non deve andare così, noi e i nostri figli dobbiamo vivere in pace e non in una guerra perenne. Hanno pagato un prezzo altissimo, ma lo pagheranno ancora di più se saranno dimenticate e il loro esempio non diventerà un patrimonio collettivo che rigenera in bene e felicità le azioni della gente di questa terra. Calabresi, guai a voltarsi dall'altra parte e a digerire anche queste storie come un normale tran tran quotidiano. Facciamole diventare l'immagine di una Calabria combattiva e positiva, di quella bella Calabria che tutti vorremmo e che purtroppo non c'è se non nel panorama. Domani è l'8 marzo, una festa che rischia di essere tale solo per vendere un po' di mimose e scambiarsi qualche regalo o cena, ma che poi di tanto in tanto recupera la sua carica vitale. Ebbene, quest'anno ogni mimosa sia accompagnata dai volti di Giuseppina, Maria Concetta e Lea. Alla 'ndrangheta militare e a quella in doppiopetto (“che sta in mezzo a noi, purtroppo”), facciamo sapere da che parte stiamo. E questa sia solo una tappa di un cammino collettivo, fatto di piccoli e grandi gesti quotidiani, che guarisca la Calabria dal male che la devasta e la riscatti agli occhi dei suoi ragazzi e del mondo”.
Un grido d’allarme senza precedenti, un appello forte al quale hanno risposto e, continuano a farlo, donne ed uomini della Calabria onesta ma anche gente delle associazioni, amministratori, testimoni di giustizia e politici. Proprio a questi però desidero rivolgere il mio pensiero. È la classe politica calabrese che manca, è quella nazionale che non si preoccupa di sollecitarla, è la società civile che ha perduto la bussola che riconduce alla strada maestra. Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo e Giuseppina Pesce non sono solo tre donne che oggi diventano un simbolo, ma solo l’emblema di una intera regione, nazione, cultura e impotenza che vige e domina i nostri tempi. Si inizia da piccoli, nelle scuole e nelle famiglie, si continua nel matrimonio e sul lavoro, si procede con innaturale “naturalezza” in ogni gesto della vita quotidiana. Non si riconoscono più i valori, non ci sono più gli assoluti. Tutto è ormai alla mercè del relativismo che porta alla mistificazione dell’opportunismo più becero di cui non sempre si è consapevoli complici. Occorre cambiare. Ma come? Se l’informazione è in mano ai potentati, se la politica si nutre di bisogno, se le donne continuano ad essere considerate dei sottoprodotti… Come? Davvero, come dice qualcuno, forse la Calabria ha bisogno di nuovi calabresi? Ha bisogno di colonizzatori che sappiano riportare le regole e ripristinare l’ordine? Credo che ciò che manchi è un profondo esame di coscienza collettivo, che porti chi ha sbagliato, e chi ha consentito che si continuasse a perpetrare uno stato di cose, a pagare andando via, definitivamente da questa meravigliosa terra. Credo, come donna e giornalista aderente ad Articolo21 e GiULiA ,che queste tre foto debbano davvero essere il simbolo di un nuovo, che deve ancora venire, al quale tutti, nessuno escluso, deve portare il suo contributo.
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