di Vincenzo Vita*
La domanda per chi sente di voler continuare un’esperienza di sinistra aperta, critica, creativa è se c’è ancora spazio nel Pd per un’autonoma - quasi ‘federata’- attività in un più vasto contenitore. Non è una questione retorica, quanto piuttosto la presa d’atto che ciò finora non è avvenuto.
Siamo in una congiuntura dove constatare che ormai la politica senza una visione del mondo, senza un’idea di futuro e di paese in nome della quale rivendicare il consenso, è solo marketing. E non è un caso che a vincere in una fase dove la politica ha deposto l’ambizione dell’idea lunga sia proprio il re del marketing.
Ora, alla vigilia di un tracollo epocale, dobbiamo dire basta: o ci si conta sulle idee o allora il resto è solo marketing per fare marketing.
Quando, ormai molti mesi fa, si decise di partecipare alle primarie con una specifica lista di appoggio alla candidatura di Veltroni, si suppose che il partito sarebbe diventato plurale e realmente rappresentativo di culture diverse. Le differenze come ricchezza. Il pluralismo come aspetto costitutivo della nuova forma politica: non la gentile concessione di un’oligarchia. E ora? Di fronte all’evidente insuccesso dell’impostazione originaria, che rendeva persino accettabile lo scambio tra l’affievolimento delle identità e però un plus di partecipazione (nonché un avvio concreto di disgelo generazionale), il quadro odierno appare davvero amaro.
La sconfitta elettorale del 2008, seguita dalle gravi flessioni delle regionali e poi dal voto recente europeo ed amministrativo, non va banalizzata. Né le colpe vanno cercate a senso unico. Tuttavia, sono ormai numerosi i milioni di voti perduti. Le astensioni. Diventate clamorosamente ampie con l’assurdo referendum elettorale. E’ mancata nel corso dei mesi passati un’analisi autocritica, a cominciare dalla rimessa in discussione - ancor prima della ‘vocazione maggioritaria’- dell’idea ‘aconflittuale’ del dopo Novecento. E così il nuovo partito ha navigato senza una bussola precisa, mentre si assiepava persino negli interstizi della società italiana il ‘berlusconismo’, ormai diventato una sorta di post-ideologia. Espressione distorta dei fenomeni della ipermodernità, fissati sui ritmi e sugli stili della società mediatica: il populismo autoritario dell’era digitale. Una destra pericolosa, densa di nostalgie parafasciste, di localismi corporativi e di richiami plebiscitari. La destra contemporanea richiede un’interlocuzione alternativa in grado di ristrutturare il campo sociale progressista, progressivo, quello che abbiamo chiamato centrosinistra. Ecco perché il Pd ha bisogno di avere una sinistra interna, che dialoghi con quella esterna. Anche per rimettere in causa l’insieme della attuale morfologia delle forze in campo.
Su quali linee? Il dio socialdemocratico ci salverà?
Si può immaginare di fare a meno di una riconsiderazione della sfera stessa della Politica, dopo un secolo e mezzo di pratica dei modelli della rappresentanza?
E’ un dato di fatto che le istituzioni democratiche vivano in una condizione difficile, contraddittoria, solcata da fremiti e tendenze autoritari. La stessa politica tradizionale è demotivante e demotivata. Siamo di fronte ad un crescente deficit democratico, con un pericoloso distacco tra la sfera pubblica e i flussi della vita reale, ben oltre la più classica antinomia tra stato e società civile. E’ anche, e soprattutto, un deficit di motivazione, che dà luogo a forme di nichilismo attivo e passivo. La ricostruzione del Politico richiede, dunque, di scartare le soluzioni solo tattiche, interne alla diaspora dei vecchi schieramenti, per correre - invece - il rischio di reinterpretare la parte pubblica come esperienza etica, al più alto livello possibile.
Tra l’altro, il Politico - malgrado tutto - continua a determinare la vita sociale: per la sua presenza o per la sua assenza. Riprendere il filo del discorso della, sulla politica significa fare i conti (tentare di…) con la conclusione del Novecento in tutti i sensi. E di tutte le grandi narrazioni, ivi compresa la costruzione socialdemocratica.
In fondo, l’idea del partito democratico nasceva da qui, dalla volontà di superare identità intaccate dalla corrosione del tempo e dall’inadeguatezza rispetto alle novità clamorose avvenute nell’ultima parte del secolo scorso: la realizzazione della società informazionale. Nessuno ci ha poi provato davvero. La società dell’informazione, con la ridefinizione delle caratteristiche stesse (la ‘forma’) della produzione e del consumo, con l’entrata in scena dei beni immateriali appoggiati su di una catena del valore post-fordista, implode nella politica. E’ il rovesciamento: la politica si fa comunicazione; la comunicazione è la politica.
La politica, le culture, l’economia della stagione della rete evocano, richiedono un riformismo forte, ben lontano da quello leggero che ci ha accompagnato negli ultimi anni. Obama docet. Non ha funzionato da noi il partito democratico, non regge la vecchia concezione della sinistra, ancorata al suo ‘doppio’ recente, il capitalismo liberista.
E’ indispensabile un nuovo ‘Manifesto’, quarant’anni dopo. Non è una forzatura retorica. Mutatis mutandis serve ora, come allora, una ben diversa cultura politica: liberale, libertaria, ecologista, pacifista, socialista, immersa nell’universo digitale.
La nostra, infatti, è stata innanzitutto una sconfitta culturale. Di qui dobbiamo ripartire. Per sottolineare i punti qualificanti di un programma fondamentale: attenzione straordinaria al lavoro, valorizzazione dell’innovazione tecnologica come strumento anticrisi, politiche ambientali. Impianto locale e globale (‘glocal’). Solidarietà, economia del dono, lotta alle emarginazioni antiche e a quelle figlie della postmodernità.
Attenzione alla biopolitica.
Il partito democratico nacque probabilmente come strategia difensiva, per l’impraticabilità di una mera continuità con il passato. Né la sinistra è un ‘copyright’, o un recinto da tutelare. Integrazione, valore delle differenze, dialogo tra culture e storie diverse. Questo doveva, voleva essere il Pd. Non lo è stato. Potrà tornare ad esserlo? Sembra essere la domanda congressuale, con le candidature per la segreteria che evocano implicitamente simile scelta di campo, con l’irruzione per di più di categorie come ‘generazione’ e rifiuto della politica professionale.
Ma è questo davvero l’interrogativo? O non è ben più radicale, ovvero: il Pd non è forse il traghettatore collettivo verso i nuovi confini, che oggi supponiamo siano popolati dai ‘barbari’? E se è così, il segretario (peccato siano solo uomini) non deve avere le sembianze egli stesso del primo attore di una transizione, in grado innanzitutto di garantire che le diversità si scompongano e si ricompongano in una sintesi più avanzata? Per riaprire la storia interrotta e divisa della sinistra? Insomma, chi ‘tutela’ maggiormente il ‘Manifesto’?
*da Il Manifesto 22 luglio 2009