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Articolo 21 - Editoriali
Fioravanti e lâ??Italia smemorata
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di Carmine Fotia

Due notizie apparentemente distanti, in realtà legate da un filo comune.
La prima, il ritorno in libertà di Valerio Fioravanti, il killer nero condannato insieme alla moglie Francesca Mambro e a Luigi Ciavardini (anch’essi saranno liberi tra poco) per la strage della stazione di Bologna nella quale perirono 85 persone e per altre decine di omicidi.
La seconda, il maldestro tentativo di Gaetano Pecorella _un parlamentare del Pdl  che presiede la commissione che dovrebbe indagare sulle cosiddette ecomafie (ovvero sulle infiltrazioni mafiose, soprattutto camorriste, nel ciclo dei rifiuti) _ di gettare ombre sinistre sulla figura di Don Peppe Diana il coraggioso sacerdote assassinato dalla camorra.
Che cosa le accomuna, dunque?
La perdita di una memoria condivisa di cosa è stato questo paese, delle sue tragedie e delle sue malattie, dei suoi buchi neri, dei suoi carnefici e dei suoi eroi. Tutto ciò porta a una grottesca inversione delle parti, talchè i carnefici diventano vittime e gli eroi sono trasformati in falsi miti.
Nel caso di Fioravanti, la politica e l’opinione pubblica hanno semplicemente ignorato la denuncia fatta dall’Associazione dei familiari delle vittime di Bologna, allorché gli fu concessa la libertà provvisoria, cinque anni fa: “Guardate che questo è il primo passo per la libertà completa”, dissero i familiari. Ma nessuno li ascoltò.
In Italia, una legge assai civile prevede che anche per gli ergastolani siano previsti benefici e sconti di pena, qualora il condannato osservi una buona condotta in carcere, risarcisca le vittime e mostri chiari segni di ravvedimento. Non abbiamo motivo di dubitare della prima, la seconda può essere elusa qualora il condannato dimostri di non avere i mezzi. La terza è affidata alla discrezionalità del giudice. E la domanda è questa: in che cosa hanno mostrato Fioravanti, Mambro e Ciavardini il loro ravvedimento? Essi, com’è nel loro diritto, negano di essere i responsabili di quell’orrenda strage e quindi non possono essersi pentiti di una colpa che non hanno mai ammesso ma per la quale sono stati condannati in via definitiva.
 Si dice, ma perché avrebbero dovuto negare la loro responsabilità nella strage quando si sono assunti la paternità di decine di omicidi? Come dire che quando Totò Riina dice che lui non c’entra con la strage di via D’Amelio dovremmo credergli sulla parola!
 La verità giudiziaria (l’unica finora ottenuta per una strage terroristica) è stata questa: gli autori materiali sono stati i tre terroristi neri, nessuna condanna per i mandanti, condanne invece per Licio Gelli e esponenti dei servizi segreti per aver deviato le indagini. Dunque, è una strage fascista _ come scritto sulla lapide _ con responsabilità dei servizi segreti e nella P2 nel depistaggio delle indagini.
In un paese dove la democrazia fosse presa sul serio, si rispetterebbe una verità giudiziaria che viene appurata nei diversi gradi di giudizio, e i condannati per la più grave strage della storia repubblicana resterebbero in galera e non tornerebbero liberi come l’aria dopo poco più di vent’anni. Esistono altre piste, “dossier” _ come quello annunciato dal sottosegretario Mantovano _ che portano ad altre responsabilità, riconducibili al terrorismo filopalestinese? Se ci sono elementi nuovi si chieda _ come prevede la legge _ la riapertura del processo. Altrimenti si taccia.
Ma il punto non è questo. Il fatto è che l’occasione della liberazione di Fioravanti è stata l’occasione per dire basta a quello che il terrorista ha definito “un rito vendicatorio e purificatorio”. Cioè al ricordo della matrice fascista (e non solo) della strage, che non è un reminiscenza del passato ma ci indica come questo paese sia stato per un decennio sottoposto a una terrificante strategia di demolizione della democrazia della quale lo stragismo nero fu parte integrante e nel quale ebbero parte pezzi dei servizi segreti e delle istituzioni che s’incontravano in quel crocevia che fu la P2 di Licio Gelli (come ha di recente ricordato il presidente emerito della repubblica Carlo Azelio Ciampi).
.Ecco che il cerchio si chiude: la cancellazione della memoria deve prima eliminare quel grumo di verità dolorosa rappresentato da chi per i suoi morti chiede solo e semplicemente giustizia. Così Fioravanti diventa una specie di pio uomo ravveduto e i familiari delle vittime gli irriducibili, gli estremisti che non vogliono la pacificazione.
Quanto a  Don Diana,  l’onorevole Pecorella, che è presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulle Ecomafie, ma anche difensore di uno degli imputati per l’assassinio del sacerdote, ha invitato a “cercare altri moventi” che non quello camorrista, citando presunti rapporti poco chiari di don Diana con alcune donne (calunnia già smentita nel processo). Poi, dopo la puntuale scesa in campo di Roberto Saviano in difesa della memoria di Don Diana, dell’intervento di Don Luigi Ciotti, di Beppe Giulietti, Roberto Morrione e Lorenzo Diana, Pecorella ha fatto marcia indietro: “Mi scuso, non volevo offendere nessuno”.
In realtà, nella sua lettera aperta, torna a chiedersi :”c’è il diritto di mettere in discussione tutto, anche i miti, anche gli eroi?”. Chi di voi non risponderebbe di sì a questa domanda? Peccato che in Italia, per i caduti per mano delle mafie, per i loro familiari, occorre rovesciare la domanda: “E’ possibile non mettere in discussione coloro che sono stati costretti a diventare eroi per poter fare semplicemente il loro dovere?”. Non pare all’onorevole Pecorella che questa messa in discussione sia stata già praticata da un bel pezzo? Posso ricordargli le manifestazione andate deserte per l’anniversario di via D’Amelio? La richiesta del pagamento di debiti per centomila euro da parte dello stato agli eredi dei Siciliani di Pippo Fava? Le accusa a Roberto Saviano di usare la lotta alla camorra per vendere più copie dei suoi libri?
Sommessamente faccio osservare che la demolizione della figura delle vittime è stata da sempre _ come ci ricordava Giovanni Falcone _ una delle principali strategie comunicative della mafia. Io non dubito delle buone intenzioni dell’on Pecorella ma  sarebbe il caso di  evitare di farvi ricorso, sia pure inconsapevolmente.
L’on. Pecorella accusa Saviano di essere un giustizialista perché accusa gli avvocati di mafia e di camorra di essere complici dei boss, mettendo così in discussione una funzione essenziale in una democrazia moderna. Certo, se facesse questo Saviano avrebbe tutta la mia riprovazione. Ma è forse lesa maestà ricordare, come fa Saviano, che, accanto a tanti ottimi avvocati che difendono i loro clienti, ci sono professionisti che sono diventati veri e propri consigliori dei boss?
Infine, io non dubito della specchiata onestà e della correttezza professionale dell’on. Pecorella. Però mi domando e gli domando: è opportuno che il presidente di una commissione che deve indagare sui rapporti tra camorra e business dei rifiuti difenda imputati di camorra?
Sono forse anch’io un perfido giustizialista?

 

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