di Gianni Rossi
Il “Patriarca” d’Italia si avvia rancoroso e stizzito verso un autunno dalle tinte fosche, mentre attorno a sé il panorama politico, economico e morale l’opprime come mai gli era successo nella sua ultradecennale carriera imprenditorial-politica.
Ci sarà la sentenza della Corte Costituzionale sul “Lodo Alfano”, la legge che lo tiene al riparo da qualsiasi guaio giudiziario, che probabilmente lo vedrà soccombere. Ci sono poi le inchieste giornalistiche in Italia e all’estero che già gli fanno sognare “sorci verdi” per le sue “scappatelle amorose”.
Arriverà il momento topico nella intricata telenovela del divorzio dalla moglie Veronica Lario con il contrastato corollario della divisione dell’enorme patrimonio azionario, immobiliare e finanziario, che già sta mettendo contro i 5 “fratelli coltelli”, nati dal primo e dal secondo matrimonio ( a chi andrà il controllo della Mondadori? E che fine farà la compagine azionaria di Fininvest-Mediaset-Publitalia? E la cassaforte assicurativo-bancaria di Mediolanum? Chi comanderà cosa nelle imprese di famiglia?).
Ma i guai per il Cavaliere non si fermano alla sfera pur sempre personale, anche se pubblica e quindi politica. C’è il ritorno nelle fabbriche, la riapertura al lavoro del mondo produttivo ferito mortalmente dalla crisi mondiale, che in Italia mostrerà la faccia più feroce, rispetto al resto d’Europa. Gli ultimi dati sull’aumento esponenziale della disoccupazione, delle richieste di cassa integrazione, dei fallimenti societari, dei crediti bancari negati ai piccoli e medi imprenditori, la stretta creditizia verso i milioni di risparmiatori, la caduta dei prezzi alla produzione, l’aumento ormai ingombrante delle merci nei magazzini, la caduta libera dei consumi sempre più ridotti: tutte avvisaglie, insieme all’inflazione ormai a livello Zero, come per i rendimenti dei titoli di stato, che suonano come deflazione e recessione.
Cresce la povertà delle famiglie, col raddoppio in dieci anni degli italiani che sono scesi sotto la soglia della sussistenza (i dati agghiaccianti della Caritas e dell’Istat, oscurati da TV e gran parte dei media, sono incontrovertibili e minacciosi per la stabilità sociale). E’ salita ancora la pressione fiscale, arrivata ormai ai livelli della Svezia, senza però il welfare state generoso di quel paese.
Pesano sulle casse dello Stato la diminuzione del PIL, ormai oltre il 5%, e l’aumento del rapporto Deficit/PIL che ha superato i limiti del Trattato di Maastricht, così come il Debito pubblico si avvia verso il 120%, il che fa precipitare l’Italia verso la bancarotta finanziaria rispetto agli altri paesi più industrializzati. Per non parlare del peso sempre più oneroso della spesa pensionistica (complice anche il forte ricorso ai prepensionamenti per mascherare i licenziamenti).
In tutto questo calvario economico e sociale spicca proprio l’assenza da parte della sinistra, e specialmente del PD, impegnato nel dibattito congressuale per scegliere il nuovo vertice e la propria identità, il progetto di una riforma fiscale “rivoluzionaria”. Al suo esordio in politica, alla sua “discesa in campo” Berlusconi si vantò 15 anni fa di voler attuare con l’aiuto del suo fido super-ministro dell’economia Tremonti una riforma del sistema fiscale da “sogno”: tre aliquote da 0 a 23 fino al 33%.
Una riforma in salsa americana, alla Bush padre e figlio, succubi delle ricette iperliberiste dettate dalla fallimentare Scuola di Chicago, basate sulle teorie monetariste del Premio Nobel Friedman (grazie alle quali abbiamo assistito ai crac, che dal 2007 al 2008 hanno terremotato i mercati finanziari americani e quelli di tutto il mondo, con esborsi di circa dieci mila miliardi di euro da parte degli stati sovrani!). Sta qui, da quella promessa mai concretizzata, sulla quale poggiano i piedi di argilla del Patriarca onnipotente di Arcore, la vera debolezza politica del centrodestra.
Berlusconi ha governato meno di un anno nel 1994 e utilizzò la leva fiscale per salvare le sue imprese e iniziare una serie di condoni inefficaci, che poi reiterò nel suo secondo periodo di governo dal 2001 al 2006 con l’aggiunta dei “miracolosi” sconti fiscali per il rientro dei capitali fuggiti all’estero (altra invenzione del ministro Tremonti/Treconti), e che ora ripete per l’ennesima volta (errare humanum est, perseverare… diabolicum!).
Ma come gli ha fatto notare pochi giorni fa sulle pagine del Corriere della Sera, uno dei suoi più autorevoli editorialisti, l’ economista Francesco Giavazzi (uno di quelli che raramente si è esposto contro i suoi governi, mentre non ha mai lesinato aspre critiche ai governi Prodi, e che insieme ad altri suoi colleghi ha sbagliato anche le previsioni negli ultimi anni), la maggiore sconfitta del berlusconismo si basa proprio sulla “bugia mediatica ed elettoralistica” del taglio delle tasse. Berlusconi ha accampato mille scuse per non abbassare la pressione fiscale, quasi sempre addossandone le colpe alla cattiva gestione dei conti pubblici da parte dei governi di centrosinistra e, da ultimo, agli effetti perversi della crisi economica e finanziaria mondiale.
“Ho le mani legate!”, questa la scusa infantile, come le tante altre bugie mediatiche sui suoi comportamenti privati. Ma sa di aver mentito con sé stesso, il suo elettorato e con tutto il paese. La sua politica fiscale si basa solo su condoni, più o meno mascherati, e su lievi incentivi a banche, gruppi finanziari e imprese per lo più di grandi dimensioni, “aiutini” a pioggia per alcune pubbliche amministrazioni locali in sintonia politica, oltre ad indebolire i controlli fiscali su alcuni settori commerciali più propensi a votare per il centrodestra e a ridurre l’efficienza della lotta all’evasione e all’elusione fiscale.
Giavazzi è stato bacchettato, e con lui anche il Governatore di Bankitalia, Mario Draghi, anche se non facendo i loro nomi, prontamente dal superministro Temonti/Treconti al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione, il quale ha tacciato tutti gli economisti di essere dei “maghi” che sbagliano previsioni e ingarbugliano anche le ricette. “Meglio che stiano zitti per due anni!” ha sentenziato il fiscalista principe del Patriarca. Ma l’attacco del Corriere suona come una sentenza inappellabile per il futuro della politica economica e fiscale del governo: senza una drastica riduzione della pressione fiscale, il nostro paese rischia l’asfissia e la rivolta giacobina delle piazze.
Brilla per l’assenza nel dibattito precongressuale del PD proprio questo argomento, che invece è, come si usa dire oggi, “dirimente”. Certo incombe la tragica mannaia della censura, dell’intimidazione giudiziaria e della normalizzazione su tutto il sistema dell’informazione: ormai il servizio pubblico è diventato MediaRai; non esistono più spazi liberi di informazione e i palinsesti di tutte le TV sono infarciti di programmi sempre più di bassa qualità.
Gli attacchi a quel che resta della libera stampa sono degni di uno stato assolutista. Il regime da molti paventato e da alcuni, anche da sinistra, ironizzato, è ormai una realtà. Ma non si tratta di un regime autoritario “para-fascista, dittatoriale sudamericano”, ma di un sistema moderno di autocrazia mediatica, che pone l’Italia fuori dal consesso della Comunità Europea e dal novero degli altri stati liberi e più industrializzati. Un virus politico-istituzionale, che potrebbe comunque estendersi nel resto del nostro continente, se non si porranno adeguate contromisure sociali, istituzionali e politiche in Italia e in Europa.
Eppure, il vulnus della mancata riforma fiscale è per Berlusconi più di una spina nel fianco, perché sa che tra le tante bugie mediatiche, personali o politiche, questa è la più pesante, quella che tutto l’elettorato da destra a sinistra non perdonerà mai (Prodi perse tutto il suo enorme vantaggio sul Cavaliere alle precedenti elezioni, proprio perché inciampò sulle tasse e nel 2008 questo fu un tema elettorale vincente per il centrodestra).
Le condizioni per inchiodare da subito questo governo, partendo dal dibattito in Parlamento sulla prossima Finanziaria, ci sono tutte: l’inflazione a livello zero, i salari reali più bassi del 30% rispetto alla media europea, gli incentivi defiscalizzanti alle aziende, la forte contrazione dei consumi, il basso costo dei tassi d’interesse. Una riduzione dalla pressione fiscale, oggi intorno al 48/49% reale dei redditi da lavoro dipendente (quelli che pagano davvero le tasse, insieme ai pensionati!), con 3/4 livelli di aliquote, fino al max del 39%, già a partire dalle dichiarazioni dei redditi del 2010, può innescare il circolo virtuoso di ripresa dei consumi e maggiore gettito fiscale indiretto.
Andrebbero inoltre ridotte le trattenute fiscali sui salari, TFR e Fondi pensione e messo un tetto ai redditi dei supermanager, a partire da quelli pubblici e dai banchieri (negli USA la soglia, seppure contestata, è sui 500 mila dollari, in Germania sui 500 mila euro).
E poi, inserire finalmente il quoziente familiare: la pressione fiscale va ridistribuita sul numero dei componenti del nucleo, accompagnata alla deducibilità dell’IVA sui consumi e le spese per la famiglia, oggi impossibile, sulla falsariga del fisco americano.A questa “rivoluzione fiscale”, liberale e keynesiana, andrebbe accompagnata una politica per favorire aumenti indicizzati dei salari, fino ai redditi di 150 mila euro, abolendo l’assurda e antistorica inflazione programmata, per almeno due,tre anni.
Certo, in questo modo entrerebbe in giro molta più carta moneta rispetto al rapporto deficit/debito pubblico, sprigionando una specie di svalutazione indotta e controllata dell’euro e, inoltre, facendo risalire il tasso d’inflazione verso il 2/3%. Aumenterebbero però anche i rendimenti dei titoli di stato, più fruibili per i piccoli risparmiatori, abbassando il peso degli interessi sul Debito pubblico!
Sono piccoli rischi da correre, se si vuole far girare di nuovo la ruota della ripresa dei consumi interni e delle esportazioni verso i paesi più forti economicamente di noi: Germania, Stati Uniti, Giappone e paesi asiatici emergenti. Sarebbe imboccare la strada riformatrice dell’equità sociale, per non far ricadere tutto il peso della crisi sulle spalle dei lavoratori e dei pensionati, favorendo come oggi accade soli i settori bancari e le grandi imprese, che però negli ultimi 10 anni, non hanno innovato né investito in ricerca, sviluppo e occupazione dentro il nostro paese.
Hanno solo pensato ad investire in speculazioni finanziarie sempre più sofisticate e aleatorie, oltre che nell’acquisto sconsiderato di immobili ovunque, così come hanno rincorso la delocalizzazione come unica alternativa alla riduzione del costo del lavoro e alla difesa dei proventi erosi dalla concorrenza della globalizzazione del sistema capitalistico.
Ma sarà capace il PD, in ciò coinvolgendo anche l’opposizione, a far fronte comune su questo terreno, ormai scivoloso per Berlusconi? Sarà capace, proprio in questo autunno nero per la vita del Patriarca, di scoccare l’affondo decisivo al cuore della politica ingannatrice del centrodestra, che da oltre 15 anni ciurla nel manico delle riforme strutturali? Sarà insomma in grado di creare un’ alleanza dei ceti produttivi e sani della nazione contro la parte più retriva e ingorda del paese, quella avvezza da 25 anni al “mondo dei sogni mediatici” del berlusconismo?
Occorrerà che la politica, quella di ampio respiro, torni al centro del dibattito congressuale del PD, che il partito nuovo della sinistra riformatrice italiana guardi oltre la siepe del proprio egocentrismo e ritorni a pensare in grande, sfidando l’attuale egemonia autoritaria, che sta precipitando il nostro paese nel baratro economico-sociale e nel declino etico e culturale.