di Mattia Stella*
Lo so, il titolo di quest’articolo può sembrare un po’ traumatico, ammetto che in parte vorrei lanciare una provocazione ma questo giudizio non è totalmente privo di fondamento.
Sono arrivato a questa amara considerazione incrociando alcuni elementi con i quali mi sono imbattuto nell’arco degli ultimi giorni.
Primo elemento: i dati ISTAT sull’occupazione giovanile. Dal rilevamento dell’ISTAT risulta chiaramente che i giovani stanno pagando il prezzo più alto della crisi economica, sia perché sono i primi ad essere espulsi dal mercato del lavoro sia perché trovano sempre più difficoltà in ingresso. Inoltre l’ISTAT rileva che tale gap generazionale non è più un’esclusiva peculiarità delle Regioni del Mezzogiorno d’Italia ma sta stabilmente e inesorabilmente risalendo la penisola.
Secondo elemento. La settimana scorsa la Fondazione di Vittorio e il CRS (Centro Riforme dello Stato) hanno promosso un interessante sessione di studi sulle lotte operaie del 1969, prodromiche all’approvazione dello Statuto dei diritti e dei doveri delle lavoratrici e dei lavoratori. Tra tutte le cose che ho ascoltato (e imparato) c’è stata una constatazione che mi ha fatto particolarmente riflettere, ovvero che la stragrande maggioranza dei protagonisti di quelle lotte erano persone che avevano a mala pena la quinta elementare.
Terzo elemento. Gira su youtube un pezzo tratto da “Mai dire Grande Fratello”, noto programma satirico della Gialappa’s band, nel quale vengono fatte vedere le selezioni per il Grande Fratello. Ovviamente gli aspiranti sono tutti giovani e giovanissimi, tra questi ve ne sono alcuni che dicono di lavorare in un bar come barristi con due “r”, ma il più sconvolgente è un ragazzetto che ci offre il seguente spelling di Londra: L’ondra.
Sono tre fattori estremamente eterogenei fra di loro ma ho voluto comunque “scecherarli” e sono giunto all’amara conclusione che la mia generazione, per capirci, tutti quelli che hanno meno di 35 anni, non è all’altezza di ciò che la Costituzione repubblicana prevede in materia di lavoro.
Cercherò di spiegare brevemente perché esprimo un giudizio così pesante.
Intanto partirei da quanto afferma la Costituzione in materia di lavoro. Partendo dall’articolo 1, in forza del quale “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, si passa all’articolo 4 della Costituzione che afferma: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” per poi arrivare all’articolo 35 in base al quale “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” e infine concludere con l’articolo 36 il quale stabilisce che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”.
Certamente dalla lettura d’insieme di queste norme costituzionali si evince uno scenario oggettivamente distante dalle condizioni materiali della stragrande maggioranza dei giovani lavoratori o in cerca di prima occupazione.
I dati dell’ISTAT null’altro fanno se non confermare quanto è possibile comprendere semplicemente ascoltando le storie quotidiane di giovani lavoratori subordinati o fintamente parasubordinati abbandonati alla deriva della precarietà, di giovani che tentano di costruirsi una libera professione di fronte a ordini professionali che sempre più chiudono le porte d’ingresso a coloro che non sono ancora dentro la corporazione, di giovani che vorrebbero avviare un’attività d’impresa ma non riescono ad accedere al credito. Insomma di fronte ad uno scenario del genere, di fronte all’oggettiva difficoltà di prefigurarsi un futuro minimamente dignitoso ci dovrebbe essere un minimo di protesta. E invece nulla si muove, o peggio ancora ciò che si muove è “compartimentato” alla specifica rivendicazione di categoria, gli insegnanti precari protestano per gli insegnanti precari, i praticanti avvocati o aspiranti tali si preoccupano di fronte all’ipotesi di riforma dell’accesso alla professione legale, i ricercatori universitari si battono per i ricercatori universitari, i lavoratori dei call center si battono per i loro colleghi e così via, mancando del tutto una rivendicazione che unisca a prescindere dal lavoro o dalla professione che si ha, una rivendicazione che parta dalle comuni condizioni materiali di difficoltà.
Eppure siamo una generazione con un livello di istruzione particolarmente elevato, sono pochissimi coloro che hanno solamente la licenzia media, la quasi totalità ha ottenuto un diploma di scuola superiore, molti hanno intrapreso un percorso di studi universitari e tra coloro che hanno ottenuto la laurea diversi hanno intrapreso percorsi di specializzazione post laurea. Pertanto la nostra è una generazione con un buon livello di istruzione, e da che mondo e mondo un buon livello di istruzione dovrebbe aiutare ad avere una maggiore consapevolezza dei propri diritti, e invece non è così. Anche i più sensibili, i più battaglieri, i più indignati si fermano ad una statica rivendicazione di diritti e di rappresentanza senza però riuscire a bucare il confine del proprio ambito di interesse, senza costruire quelle concrete interconnessioni tra lavoratori o aspiranti tali capaci di trasformare la frustrazione di una generazione in motore positivo e propulsivo di un cambiamento radicale della nostra società fondata su un sostanziale squilibrio dell’attuale bilancia sociale. Il punto è proprio questo, al di là dei proclami e delle facili parole piene di retorica, l’unica battaglia che i lavoratori precari, i giovani liberi professionisti e i giovani lavoratori autonomi potrebbero intraprendere dovrebbe puntare ad un radicale rovesciamento dei meccanismi di distribuzione delle risorse pubbliche introducendo elementi di disuguaglianza positiva posti in essere allo scopo di ripristinare l’uguaglianza sostanziale così come postulata nell’articolo 3 della Costituzione. Cosa me ne faccio io giovane lavoratore precario dell’uguaglianza formale se poi non sono nelle condizioni minime di dignità materiale per poter costruire una famiglia, affittare una casa, avviare un attività autonoma o accedere ad una professione?
Certamente quel ragazzo che desiderava entrare nella casa del Grande Fratello non si pone tutte queste domande. Ciò che di lui ci colpisce non è tanto l’errore grammaticale o lo spelling errato di una parola, ma piuttosto la totale mancanza di consapevolezza del furto di presente (e non di futuro) che il suo Paese sta perpetrando ai suoi danni.
*Giovani per la Costituzione