di Luisa Bossa
C’è la camorra prima di Saviano e c’è la camorra dopo Saviano. E’ il destino di chi lascia il segno, di chi scava un solco. Succede a pochi. In tanti scrivono, raccolgono documenti, testimoniano, raccontano, rischiano anche la vita. Ma succede a pochi di scavare un solco. Roberto Saviano lo ha fatto. Con Gomorra ha lanciato un masso nello stagno. Lo ha fatto con una superba operazione letteraria: un libro di narrativa documentale, un romanzo giornalistico, una sana mescolanza di crudezza della cronaca e di suggestione della fiction, un genere che in Italia ha pochi precedenti ma che in America è collaudato. Saviano ha scavato un solco e dopo di lui la camorra non è più quella di prima. Non lo è la percezione del fenomeno, non lo è la sua conoscenza, e non lo è nemmeno più la maniera di raccontarla.
Nessuno potrà più dire che la camorra non esiste, ovviamente. Ma nessuno potrà nemmeno più ridimensionarla. Nessuno potrà dire di non sapere, come fa, curiosamente, in questi giorni un uomo come Cosentino, nato e cresciuto nel casertano eppure, a credere alle sue parole, così ingenuo da non sapere che gli imprenditori con cui tesseva trame di lottizzazione clientelare erano guidati dal clan dei casalesi.
Dopo Saviano, nessuno potrà più dire di non sapere. Allo stesso modo, dopo Saviano, anche la letteratura, anche il giornalismo, non sono più gli stessi. Il solco scavato dal giovane scrittore napoletano è netto: la narrativa può denunciare, può farsi corpo vivo della società; il giornalismo può scavare, può farsi cane da guardia della vita civile.
Ecco perché appare più un lamento spaventato che una minaccia seria, il rimprovero di Renato Farina, che in un articolo uscito qualche giorno fa sul Giornale, sbeffeggia Saviano definendolo guru e giannizzero perché ha firmato un appello a Berlusconi a ritirare il disegno di legge sul processo breve.
Cosa rimprovera Farina allo scrittore di Gomorra? Di farsi parte attiva in una battaglia civile. L’agente “Betulla” (così chiamavano Farina nei brogliacci dei servizi segreti italiani, a cui pare che il giornalista-deputato abbia strizzato l’occhio in più occasioni) vorrebbe che Saviano si “limitasse” a fare lo scrittore. In quel limite indicato, Farina dimostra di stare dall’altra parte del solco. Non ha capito che qualcosa è cambiato. Giornalisti, scrittori, intellettuali non possono più dire di non sapere. Sanno, scrivono, dicono, denunciano.
“Io so ma non ho le prove” urlava Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera trentacinque anni fa. Sapeva chi erano i mandati delle stragi, sapeva chi inquinava la vita civile e democratica del paese, sapeva chi deviava i servizi, chi s’infiltrava nelle istituzioni per destabilizzarle, sapeva chi sabotava la democrazia. “ Io so – scriveva Pasolini - perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace”.
Saviano, a cui forse non è utile addossare il fardello di un paragone con Pasolini, oggi ci ripropone la figura di un intellettuale che sa, che cerca di conoscere, di immaginare, di capire. Un intellettuale che indica, che accusa, che prende parte. Uno scrittore che non si chiude nella sua stanza. Un giornalista che non segue la scia. Uno che dice. E che, quindi, firma appelli e usa la sua notorietà per fare una battaglia di civiltà. Uno che si batte e che l’onorevole “Betulla”, ovviamente, vede come il fumo negli occhi.
Perché chi ama il sussurro dei servizi segreti teme l’urlo dell’intellettuale libero.
*da l'Unità