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Articolo 21 - Editoriali
A proposito della riforma della giustizia
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di Livio Pepino

Riportiamo di seguito i due interventi di Livio Pepino pubblicati sul Manifesto di domenica 17 gennaio e domenica 10, in merito a separazione delle carriere e CSM.

 Separazione delle carriere

Il dibattito sulle riforme della giustizia è ripreso. Dal tenore di alcuni interventi sembra che il vero problema stia nella "separazione delle carriere" di giudici e pubblici ministeri. Non è così. Anzi, la "guerra di religione" che si è scatenata al riguardo finisce per allontanare indefinitamente gli interventi sui veri nodi della giustizia (revisione della parte speciale del codice penale, radicale modifica della disciplina degli stupefacenti e della immigrazione, fissazione di un tetto massimo della pena detentiva, reali alternative al disastro del carcere, modifica del sistema delle impugnazioni, ampio accesso alla mediazione e alla conciliazione, revisione della magistratura onoraria, organizzazione degli uffici giudiziari secondo moduli predefiniti, istituzione di un "ufficio del giudice" che svolga l’attività di routine, nuova disciplina della professione forense e via elencando), da cui passa una riforma degna di questo nome. So bene che non ci sono, oggi, le condizioni politiche per interventi di segno democratico, capaci di voltar pagina rispetto alla spirale repressiva in atto e alla contestuale crescita di inefficienza. Ma non è una buona ragione per far scomparire il tema anche dal dibattito pubblico. Accettare che il terreno del confronto sia fissato da altri (che perseguono interessi opposti) è, in realtà, uno dei segnali della crisi della sinistra.
Sul punto bisognerà tornare. Ma ora mi sembra utile dire perché il tema della "separazione delle carriere" è un inutile diversivo o una "trappola". Non sono un pasdaran della "carriera unica" di pubblico ministero e giudice e sono convinto della lungimiranza di Gaetano Salvemini quando (oltre cent'anni fa, non oggi...) segnalava l'irriducibile anomalia del pubblico ministero, sempre a metà strada tra giudice e poliziotto, affermando che «nella infinità varietà dei tipi balordi che arricchiscono la specie dell'homo sapiens, il più balordo di tutti è il regio procuratore». Ma è proprio questa ambiguità che impone, nel disegnarne lo statuto, di tener conto con attenzione e prudenza del contesto.
Sgombriamo il campo dai falsi problemi. L'insostenibilità (teorica e pratica) per chi è stato pubblico ministero di comparire il giorno dopo come giudice nello stesso tribunale avanti al quale ha esercitato per anni funzioni requirenti è intuitiva. Negarla significa porsi fuori dalla storia e dalla realtà e male ha fatto, in passato, una parte della magistratura a non accorgersene. Ma oggi la situazione è tutt'altra. A seguito delle modifiche approvate nella scorsa legislatura, infatti, il passaggio da una carriera all’altra è consentito solo cambiando regione e previo specifico vaglio attitudinale. La situazione è esattamente quella che, nel 1994, richiedeva l'allora presidente dell’Unione Camere penali, Gaetano Pecorella: «Non di separazione delle carriere deve parlarsi bensì, più correttamente, di separazione delle funzioni (...). Con essa si vuole rimarcare che giudici e pubblici ministeri conservano eguale dignità e appartengono a eguale titolo all'ordine giudiziario: sennonché, a chi eserciti le funzioni dell'accusa a cui sono connesse quelle dell'indagine non deve essere attribuita alcuna funzione propria di chi deve giudicare, e viceversa. (...) Resta però l'esigenza che giudice e pubblico ministero abbiano una cultura comune, appartenendo tutti allo stesso ordine giudiziario. Unitario sarà il concorso di ammissione e unitario sarà il tirocinio: esaurito questo si avrà la scelta di una carriera piuttosto che di un'altra, senza che, successivamente, sia consentito de plano il passaggio dall'una all'altra. Si è detto de plano, perché uno sbarramento assoluto si porrebbe in contrasto tanto con le legittime aspirazioni di chi intenda mutare il proprio ruolo, che con la più razionale utilizzazione delle risorse umane».
Perché, dunque, cambiare ancora? Difficile comprenderlo posto che separare le carriere non produce certo di per sé crescita di professionalità né aumenta la capacità di controllo del giudice sul pubblico ministero (ché, se così fosse, si dovrebbero piuttosto separare le carriere dei giudici di appello da quelle dei giudici di primo grado e, del resto, se e quando c'è, nel processo, uno strapotere del pubblico ministero ciò dipende non dagli assetti ordinamentali ma dalla debolezza, nel ceto dei giuristi, della cultura delle garanzie). O meglio, una ragione c'è, ben comprensibile a chi – come continua invano a suggerire Rossana Rossanda – sa guardare agli interessi materiali in gioco. Lo spiegò, sul Corriere della Sera, all’inizio dell’epoca di Tangentopoli, Sergio Romano: «o i pubblici ministeri ritornano nella loro nicchia oppure bisogna separare le carriere!». E ciò perché tale separazione è inevitabilmente, a prescindere dalle "buone intenzioni" dei proponenti, l'anticamera del controllo dell'esecutivo sul pubblico ministero. Nessun salto logico in questa affermazione. Come ha scritto Alessandro Pizzorusso, senza appartenenza a un unico corpo di magistrati, «un pubblico ministero assolutamente indipendente e rigorosamente gerarchizzato (con la polizia ai suoi ordini) costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell'epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun Paese)». Così l’attrazione del pubblico ministero nella sfera dell'esecutivo diventerebbe una «esigenza politica» irresistibile. L'effetto – auspicato da Luciano Violante, ma non per questo condivisibile... – sarebbe quello di portare «le scelte fondamentali di politica criminale (quali reati perseguire e quali lasciare impuniti) nelle mani del Governo» e di far venir meno «l'ipocrisia costituzionale dell'obbligatorietà dell’azione penale, resa necessaria dall'indipendenza del pubblico ministero» (cfr. Magistrati, Einaudi, 2009). Sarebbe bene rifletterci prima che sia troppo tardi.
          


 Consiglio superiore e correnti

Il pensiero unico non ha dubbi. Per risolvere i problemi della giustizia occorre, oltre alla "separazione delle carriere", una profonda riforma del Consiglio superiore della magistratura, indicato come organo clientelare (in balia delle famigerate correnti dei magistrati) e corporativo (incapace di intervenire in maniera adeguata a sanzionare scorrettezze ed errori di pubblici ministeri e giudici). Di qui le reiterate proposte di cambiamento: talora bizzarre (come quella di nominarne i componenti mediante sorteggio) talaltra nostalgiche (come quella di sottrarre al Consiglio la funzione disciplinare, che vanta come padre nobile, fin dal 1971, l'on. Almirante). Anche in questo caso è opportuno abbandonare i luoghi comuni e provare a ragionare sui fatti.
Il Consiglio superiore, composto per due terzi da magistrati eletti dai colleghi e per un terzo di giuristi designati dal Parlamento, è preposto a "governare" i magistrati (con trasferimenti, nomine e sanzioni disciplinari) e a tutelarne e promuoverne l'indipendenza, garantendone, tra l’altro, il pluralismo culturale. Chi non ama l’indipendenza e il pluralismo dei magistrati mal tollera, da sempre, il Consiglio, come dimostrò – a cavallo degli anni Novanta – l’allora presidente della Repubblica Cossiga. Ma da qualche tempo le schiere degli "insofferenti" si ingrossano.
Da ormai tre anni mi capita di essere componente del Consiglio e ne tocco con mano, quotidianamente,  vizi i virtù. I vizi in particolare (l'ho denunciato più volte anche su queste pagine) non sono pochi, come è proprio, a ben guardare di tutte le istituzioni rappresentative. Ma è proprio quest’ultimo rilievo che dovrebbe suggerire una qualche cautela nell’analisi che, invece, sembra travolgere tutto, con una sorta di furia iconoclasta che accomuna maggioranza e minoranza, destra e sinistra, laici e togati e via seguitando. Superfluo dire che la generica e indistinta affermazione secondo cui «così fan tutti» non è innocente ma serve a delegittimare l’istituzione e, con essa, il pluralismo della magistratura. Un esempio per tutti riguarda il "correntismo" che – per dirla con l’on. Violante, diventato da ultimo il più severo censore del Consiglio – lottizza ogni nomina con la conseguenza che «chi non appartenga a una corrente o non sia protetto da un partito difficilmente arriva a ricoprire incarichi rilevanti». Che questa sia la prassi per molte nomine della politica – dai prefetti ai questori, dai presidenti di aziende sanitari ai direttori dei telegiornali – è cosa nota e forse da questa diretta esperienza è un po' tratto in inganno l'on. Violante, ma per il Consiglio il discorso è più complesso. Nei suoi tre anni di attività questo Consiglio ha nominato circa 350 dirigenti di uffici e oltre 400 semidirettivi, rinnovando il 60% dei primi e il 50% dei secondi, con un incontestato salto di qualità (non solo generazionale). Certo non tutto è stato positivo e ci sono state nomine discutibili e viziate da elementi impropri come, nel dibattito consiliare, mi è spesso accaduto di denunciare. Di più, l’esperienza dimostra che ci sono, in Consiglio, componenti smodatamente clientelari, altri che usano gli stessi metodi con un minimo di discrezione e altri ancora – non pochi, per fortuna – che rifuggono da clientele e protezioni.
Ma i fatti – quelli con la testa dura – rendono evidente che se quei fenomeni di malcostume (assai diffusi nel Paese e, inevitabilmente, proiettati anche sul Consiglio) sono oggi più contenuti ciò dipende – anche se a molti sembrerà incredibile – proprio dall’impegno di alcuni gruppi (di alcune correnti, appunto). A chi ne dubita mi è facile ricordare che il clientelismo, anche tra i magistrati, ha radici antiche se è vero che già una legge del 1908 (la n. 438) vietava a giudici e pubblici ministeri di ricorrere alle raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera e che il divieto, pur ribadito da una circolare del guardasigilli Rocco del febbraio del 1930, era sistematicamente violato, al punto che il ministro Grandi si sentì in dovere di richiamarlo con il telegramma-circolare n. 2473 del 7 maggio 1940 in cui si sottolineava la necessità (quantomeno) di evitare il flusso e la permanenza a Roma dei magistrati che assediavano i componenti del Consiglio superiore per tutto il tempo in cui gli stessi erano impegnati negli scrutini o nelle promozioni. Né la situazione migliorò in epoca repubblicana, prima della nascita delle correnti, almeno a giudicare dal grottesco ritratto con cui D. Troisi descrive (in Diario di un giudice del 1955) il collega in lacrime perché, non conoscendo né vescovi né cardinali, non può ambire alla "meritata promozione"...
Attenzione, dunque, a non buttare il bambino con l’acqua calda. Non si correggono i vizi del Consiglio ripristinando modelli burocratici peggiori degli attuali, che porterebbero la magistratura indietro di 50 anni. Gli antidoti alle degenerazioni sono l'autorevolezza della componente laica e la presenza vigile del Capo dello Stato, l'esaltazione del pluralismo culturale dei magistrati (ché le derive clientelari si contrastano con il confronto ideale mentre si nutrono dell'assenza di dibattito), la generale pubblicità dei lavori (che, non a caso, alcuni vorrebbero abolire o attenuare). Non sono bacchette magiche, ma una strada realistica e suffragata dall'esperienza: percorribile se ci sarà la volontà e la capacità di farne una grande battaglia ideale /anziché di parlar d’altro).
           

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