di Luisa Bossa
Riceviamo e di seguito pubblichiamo il testo dell'intervento sulle fondazioni liriche tenuto alla Camera dall'On. Luisa Bossa.
Signor Presidente, onorevoli colleghi,
il primo atto della Norma di Vincenzo Bellini (libretto di Felice Romani) intona una celebre aria, “Casta diva”.
La Casta diva – che non è un’attrice sfuggita alle lusinghe del potente di turno – è una dea pura, e nell’opera è la luna, a cui tutti si prostrano per invocarla in preghiera.
Siamo nell’antica Gallia, al tempo dei Romani. Norma, sacerdotessa di un tempio, ama in gran segreto il proconsole romano Pollione, da cui ha avuto due figli. Ma Pollione s’innamora nel frattempo della giovane novizia Adalgisa, la quale, ignara della relazione fra Norma e Pollione, confessa il suo amore alla stessa Norma.
Come si vede le trame amoroso – sentimentali, con i potenti che preferiscono le ragazzine, non sono una specialità del basso impero dei nostri tempi. In qualche modo ci sono sempre state. Solo che, a differenza di noi che trasformiamo tutto in farsa, all’epoca avevano il senso dello struggimento e della tragedia. Ecco perché Norma, innamorata di Pollione, invece di scrivere una lettera ai giornali, rivolge una preghiera alla luna affinché il suo amato ritorni da lei.
Lascio a tutti voi il piacere di scoprire come finisce la tragedia: magari qualcuno che parla di lirica senza conoscerla si incuriosisce e va a vedere un’opera e magari capisce cos’è, quale magia solleva, di quale fatica è tessuta, di quanta suggestione si compone, e si libera – chissà – di quella odiosa supponenza che si sente troppo spesso sui temi culturali, come se fossero orpelli, omologati a gioielli e monili.
Cose inutili, di cui tutto sommato si può fare a meno.
“Il sacro bosco sia disgombro dai profani, libero”, chiede Norma alla luna e a me viene da pensare proprio al modo con cui i “profani”, in queste settimane, hanno discettato di temi a loro chiaramente sconosciuti, pretendendo di riportare tutto a numeri e cifre, indicando sprechi laddove c’è bellezza, segnalando lussi laddove c’è arte.
Il mondo culturale italiano è straordinario, ma, così come siamo incapaci di tragedie vivendo di farse, siamo anche incapaci di leggere la forza, la potenza, il valore della nostra cultura, e ci presentiamo qui, in quest’aula, non a discutere di come rilanciarla, ma a ragionare con il pallottoliere, come se fossimo al mercato.
“La luna assente della sapienza”, direbbe Norma, a cui io chiederei di “liberare il sacro bosco dai profani”. In realtà, i profani, mentre passano con un bulldozer sul patrimonio culturale italiano, hanno quasi un’allegria baldanzosa. Come quella del Barbiere di Siviglia che canticchia felice “che bel vivere, che bel piacere per un barbiere di qualità! di qualità!” e qui l’uso delle forbici, direi, appare quanto mai appropriato. Bravo Figaro, dirà il Ministro Tremonti al solerte Bondi. “Presto a bottega che l’alba è già. Ah, bravo Figaro! Bravo, bravissimo! Pronto a far tutto,
la notte e il giorno. Rasoi e pettini, lancette e forbici, al mio comando tutto qui sta”.
Rasoi e forbici, così si è lavorato. Non una riforma di settore, discussa, partecipata, condivisa, che poteva essere necessaria. Ma una teoria di tagli: qualche anno in più sull’età pensionabile, meno soldi a questo, meno soldi a quello. E la riforma è fatta.
“Ahimè, che furia! Ahimè, che folla!”, canta Figaro. La furia di tagliare, la folla di chi si oppone. “Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono”. E nell’italianissimo passaparola, una mano lava l’altra. Così ad un teatro si taglia, ad un altro no. Così pure con la manovra economica: questo ente sopravvive, quest’altro no. “Pronto prontissimo son come il fulmine: sono il factotum della città”, canta Figaro: ma è così che si amministra il pezzo più pregiato del patrimonio di questo Paese? Ma è così che si coltiva, si fa crescere, si tutela, si protegge la cultura italiana?
Il Ministro Bondi, che con tanta ostinazione difende questa Proposta di legge, che andrebbe solo ritirata per lasciare spazio a una riflessione complessiva sullo stato di salute della cultura italiana, con una riforma generale, discussa, condivisa; il Ministro, dicevo, ama, come si sa, la poesia. E io non posso immaginare che chi ama la poesia possa affrontare la cultura con la calcolatrice. Sarebbe come andare all’Opera in jeans. Giammai!
Sono certa – non posso immaginare diversamente – che il Ministro sia stato trascinato dentro una visione della cultura che non gli appartiene. E che oggi debba difendere un provvedimento in cui, probabilmente, lo voglio sperare, non crede nemmeno lui. Me lo voglio immaginare come la Principessa di Nessun dorma. “Nella tua fredda stanza, guardi le stelle, che tremano d’amore e di speranza”. Il suo mistero deve essere chiuso in lui, che del resto appare così rigido e controllato, forse non a caso. Il rigore di chi è chiamato ad un compito istituzionale, il controllo di chi non può sempre dire tutto quello che pensa.
Ma io gli chiedo di sciogliere il silenzio. Non con un bacio, come la principessa di Nessun dorma, per carità. Ma lo sciolga Ministro. Dica quello che sente. Non tutto, mi rendo conto. Ci mancherebbe. Ma almeno su come sia sbagliato che l’altissima cultura di questo Paese venga piegata a logiche di bassa contabilità; su come sia triste e volgare ridurre una riforma della lirica italiano ad uno sforbiciamento selvaggio di risorse economiche a questo o a quel teatro, polverizzando professionalità, sensibilità, spessori artistici.
Questo decreto non può trovare l’adesione di chi crede e sente l’arte. E io sono convinta che alla fine, nei sentimenti più vivi di questo Paese, si farà strada la luce. Non è possibile che si affossi un patrimonio con tanta insipienza. Vorrei credere, come in Madame Butterfly di Puccini, che “Un bel dì vedremo levarsi un fil di fumo sull’estremo confin del mare”.
Temo, però, che ci sarà da aspettare.
Ma “Mi metto là sul ciglio del colle e aspetto, e aspetto gran tempo e non mi pesa, la lunga attesa”.
La cultura italiana sopravviverà anche a questo scempio; sopravviverà anche a voi, ai vostri conti da lavandaie, alla rozzezza di certi argomenti, alla volgarità di certi discorsi.
La lirica italiana supererà questo decreto, ci guarderà negli occhi, e intonerà beffarda il suo canto più vitale: “All’alba vincerò! Vincerò, vincerò!”.