di Vincenzo Vita*
‘Piovono pietre’ si intitola un bellissimo film di Ken Loach, sulla routine dello sfruttamento dei ceti poveri o impoveriti, e la Arendt ci ammonì sulla crisi profonda della modernità: ‘La banalità del male’. Citazioni utili a dare l’idea. Di quello che è accaduto presso la commissione bilancio del Senato, dove nella tarda serata dello scorso venerdì si è conclusa la fase preliminare della manovra finanziaria. In verità, a dimostrazione della lesione ormai profonda in cui vive la Repubblica ‘parlamentare’ italiana, si è trattato sì e no di una prova d’orchestra, cui seguirà martedì (?!) la scrittura vera e propria, contenuta nel maxiemendamento del governo, sul quale incombono due richieste di fiducia, in entrambe le camere, ormai più di trenta dall’inizio della legislatura. Tagli, tagli, tagli, avrebbe intonato al pianoforte il compianto Lelio Luttazzi, con il suo agrodolce. Più aspramente si sono espresse con parole giuste Federculture, il Fai, le associazioni culturali verso la scure che si è abbattuta con ‘normale’ crudeltà contro le istituzioni culturali, l’ente teatrale italiano –disciolto forse per un capriccio, altre spiegazioni non trovandosi- persino nei riguardi delle mostre artistiche. Per non dire dell’informazione. Mentre il presidente del consiglio dice che la libertà di stampa non è così importante, più o meno in contemporanea è successo- in commissione a palazzo Madama- che l’emendamento volto a procrastinare per altri due anni il fondo dell’editoria è stato bocciato. Tra imbarazzi e rossori, l’astensione del capogruppo del partito delle libertà Maurizio Saia, le secche prese di posizione della federazione della stampa,di articolo 21,di mediacoop, governo e maggioranza hanno tagliato la fune della ghigliottina, che si sta abbattendo sui cento giornali (di più, per non parlare della chiusura di ufficio delle tariffe agevolate per ottomila testate locali, non profit….) interessati. Dall’Avvenire, al Corriere mercantile, al Secolo d’Italia, a quelli di sinistra o di centrosinistra che esplicitamente danno fastidio a Berlusconi. Ossessionato dalle intercettazioni e, unico, convinto che il diritto all’informazione non sia prevalente su quello, pur sacrosanto, alla privacy. Riservatezza dei potenti, non certo di quelli senza potere, messi spesso alla berlina da Vespa, tra una cena e l’altra. Ecco, il ddl Alfano conta immensamente di più, per la destra della televisione e del conflitto d’interessi al governo, della conoscenza e dei saperi, della comunicazione e della cittadinanza dell’era cognitiva e digitale. Idem è accaduto per le emittenti locali. E’ l’autoritarismo che si disvela, entrando in scena accompagnato non dalle lance dei Nibelunghi, bensì dalla leggerezza (non calviniana) dei reality, dei quizzoni, delle serate volgarissime trasmesse dallo schermo del Capo. Elettroregime, o giù di lì. Certo qualcosa di orrendo per la democrazia, sempre più ‘post’.
La lotta continua. Qualche voce, e di qualche autorevolezza, di una maggioranza imbarazzata e forse divisa (non c’è anche un regolamento dei conti contro il troppo ‘finiano’ ‘Secolo’?) ha spergiurato che nel testo del maxiemendamento qualcosa si salverà. Vedremo e valuteremo. E’ utile pure ricordare che l’emendamento sull’editoria era firmato anche da un senatore del Pdl, Alessio Butti, e accompagnato da un parallelo testo del leghista Roberto Mura. La speranza è proprio l’ultima, per chi non vuole morire.
*Il Manifesto – 11 luglio 2010