di Team di 'Tutti a raccolta'
Riceviamo e di seguito pubblichiamo:
Il palco da dove Papa Benedetto tuonò pochi mesi fa contro il muro dell'apartheid che fa di Betlemme una prigione, si trova proprio a due passi dalle gabbie in cui stanotte all'alba siamo stati attoniti spettatori della quotidiana umiliazione di migliaia di palestinesi che ammassati dietro le sbarre tentano di passare il check-point per andare a lavorare a Gerusalemme.
Dalla stampa apprendiamo con stupore e indignazione che molte personalità internazionali, parlamentari e artisti saliranno domani su un palco a Roma dando la loro adesione e la loro voce alla manifestazione internazionale "Per la verità, per Israele". Se ci sta veramente a cuore Israele, se vogliamo essere veri amici di Israele come del popolo palestinese, non possiamo fingere di non vedere il sistema di apartheid che da decenni umilia e distrugge i palestinesi e di conseguenza dobbiamo aiutare Israele a riconoscere le sue responsabilità.
Fa davvero un effetto strano immaginare questa maratona di parole mentre, viaggiando da una parte all'altra della Palestina, siamo testimoni della concreta oppressione che quotidianamente milioni di uomini e donne sono costretti a sopportare e che ha un solo nome da amplificare e non nascondere: l'occupazione militare israeliana.
Non riusciamo ad immaginare come tanti discorsi che verranno pronunciati nel nome della pace e della giustizia, non cadano ancora una volta nell’ipocrisia di chi finge di non sapere che l’ostacolo più grande alla pace sono proprio quelle centinaia di cantieri edili che continuano a rubare illegalmente la terra ai villaggi palestinesi. Ci chiediamo anche a quale sicurezza, libertà e verità stiano pensando coloro che si alterneranno nella maratona pro-Israele passandosi la fiaccola della sua difesa.
Tutti noi chiediamo la sicurezza per Israele come per i suoi vicini palestinesi, ed è esattamente “per la verità, per Israele” che va riconosciuta e affermata la realtà dei fatti, come unica via per una pace giusta. Quei drammatici “fatti” che in questi giorni ritroviamo nella totale umiliazione subita dai palestinesi e nella costante violazione dei diritti umani e delle leggi internazionali da parte dello stato d’Israele.
Israele potrà godere della sicurezza e della libertà che tanto giustamente cerca, solo quando la stessa sicurezza e libertà verranno concesse e garantite al popolo palestinese.
Per questo noi di Tutti a raccolta, team di giovani italiani di Pax Christi presenti in questi giorni nei Territori Occupati, vorremmo poter far salire su quel palco i testimoni della “verità per Israele e per la Palestina”; le persone che stiamo incontrando e che in carne ed ossa ci testimoniano un sistema di apartheid che va chiamato con il suo nome.
Ci piacerebbe che Daoud, dalla sua collina circondata da cinque insediamenti, potesse intervenire a Roma, per farci capire come si possa resistere con la nonviolenza alla follia di una colonizzazione che per lui significa continui attacchi, ordini di demolizione e violenze.
Vorremmo non fosse censurato dal palco di questa maratona, il pianto di Claire, la cui casa a Betlemme è circondata per tre lati dal muro e che resiste alla disperazione e alle provocazioni dell’esercito cercando di mantenersi con un negozio di souvenir davanti al quale i turisti non passano, perchè lei si rifiuta di pagare il pizzo alle agenzie israeliane.
E perché gli organizzatori non hanno invitato sul palco Daniela, ebrea israeliana di Machsom Watch, che ogni mattina va al check-point per denunciare le umiliazioni subite dai palestinesi e l’occupazione che sta alla radice di tutte le sofferenze dei due popoli?
Se potesse parlare domani a Roma la famiglia Karim, che in uno dei tanti campi profughi conserva ancora il ricordo del proprio villaggio distrutto nel ’48, mostrerebbe alle telecamere le chiavi della loro casa che non esiste più.
Se salissero sul palco gli studenti che oggi abbiamo incontrato all’Università di Hebron direbbero, come Salim, che “ognuno ha il diritto di resistere all’oppressione” oppure, come Josmine, che “lo Stato d’Israele ha tolto a noi giovani due cose che ci stanno particolarmente a cuore, la libertà e la sicurezza”, esattamente ciò che Israele pretende per se stesso.
E se dopo di loro fosse il turno di Roberta, italiana che lavora da anni nella cooperazione, racconterebbe di infinite limitazioni al movimento e sempre nuovi soprusi e controlli per il solo fatto di aver sposato un palestinese.
Se salisse suor Giulia di Betania, ci comunicherebbe tutta l’amarezza di dover chiudere la scuola ai bambini che improvvisamente si sono ritrovati a vivere al di là del muro.
E poi dovrebbe essere il turno di Mohammed, per testimoniare la violenza che ogni giorno lui e tutti i bambini del villaggio di At Twani subiscono da parte dei coloni mentre vanno a scuola.
Se sul palco salisse Hafez, che ha visto demolire la sua casa di Sheik-Jarrah, capiremmo cosa accade a Gerusalemme, destinata ad essere la capitale dei due popoli ma stravolta dalle colonie, dal muro di annessione, dalle demolizioni e dalle occupazioni di case palestinesi.
E se in fine prendesse il microfono il professor Zaher, potrebbe aiutare tutti a lasciare, per una volta, giù dal palco gli slogan e i pregiudizi, con quel sincero amore per Israele col quale ha concluso la sua lezione all’Università di Hebron: “Noi amiamo il popolo d’Israele, la religione ebraica e la sua storia, ma le azioni dello Stato d’Israele danneggiano proprio quest’immagine”.
Solo così ci immaginiamo una maratona per desiderare insieme pace, sicurezza e libertà per entrambi i popoli: a partire dalla realtà dei fatti e dalla concretezza di una pace che verrà solo con la giustizia.