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Articolo 21 - Editoriali
Sud Sudan: il 54° paese africano?
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di Padre Daniele Moschetti*

Il percorso di preparazione del referendum 2011, è stato sicuramente molto tortuoso e difficile per vari motivi. E’il passaggio decisivo e storico di un processo iniziato sei anni fa, nel gennaio 2005, con la firma degli accordi (CPA) che avevano messo fine a una guerra civile tra Nord e Sud durata oltre 20 anni. Da parte del Sud Sudan è sempre stato un punto fermo e irremovibile. Ma a quasi un mese dal referendum la gente e la comunità internazionale non avevano ancora la certezza che il referendum si facesse davvero. Molte variabili sembravano così instabili guardando le dichiarazioni di quel periodo di politici del Nord e alcuni personaggi internazionali che contano. Ma il Sud e la sua gente era convinta ad andare fino in fondo stavolta! Era un’occasione unica e storica!

Un crescendo di entusiasmo

Nel Sud, gli ultimi mesi sono stati comunque un crescendo di entusiasmo e gioia. I media riportavano già il grande clima di festa e impegno per la registrazione a questo straordinario evento del referendum . A Juba e altre città, nei mesi precedenti, strade piene di gente e macchine dotate di altoparlanti invitavano la cittadinanza a iscriversi in massa alle liste. E nelle campagne si sentiva questa spinta. La commissione referendaria aveva messo in piedi 2794 centri di iscrizione in tutto il paese, di cui 2629 al Sud, un altro centinaio al Nord e negli altri paesi dove sono sparsi la maggior parte dei sud sudanesi: Kenya, Uganda, Etiopia, Egitto, USA, Australia, England, Canada. Il numero dei votanti raggiungeva quasi quattro milioni. Questo referendum è stato finalmente possibile per il raggiungimento di un accordo tra rappresentanti del governo di Khartoum e di Juba, sulle questioni pendenti relative alla demarcazione delle frontiere. “In caso di secessione del Sud – sottolineava una nota dell’UA (Unione Africana) – le parti convengono sulla creazione di un ‘soft border’ (frontiera permeabile) che consentirà lo svolgersi di tutte le attività sociali, economiche e commerciali essenziali per la prosperità e l’armonia tra i due paesi”. I vicepresidenti Salva Kiir Mayardit e Osman Taha avevano lungamente discusso con il capo della mediazione dell’UA e dell’ONU, Thabo Mbeki per trovare una soluzione ai nodi irrisolti degli Accordi di pace del 2005 (Cpa) di cui il referendum era parte integrante. Punto di intesa temporaneo: il rinvio della registrazione dei votanti e il referendum per la zona “esplosiva” di Abyei.

Data indimenticabile: 9 gennaio 2011

Questa data è sempre stato nei cuori, nella memoria, attesa e sogni di milioni di sudisti. Il momento tanto atteso è arrivato. Dal 9 al 15 gennaio i Sud Sudanesi hanno votato nel referendum che deciderà il futuro del Sud. L'esito che uscirà dalle urne stabilirà se il Sud continuerà a rimaner parte di uno stato unitario oppure sceglierà la secessione. Nel momento in cui scrivo, dati straordinari si stanno accumulando nei 10 Stati in cui è suddiviso il Sud Sudan. Più del 90% della popolazione che aveva diritto al voto è andata a votare. Ne sarebbe bastata soltanto il 60% ma la gente del sud aspettava talmente da tempo questo giorno che si è preparata con grande euforia, festa e gioia a questo evento storico per l’intero Sudan.
A Juba, capitale del Sud Sudan, i cittadini hanno aspettato in lunghe e composte file di poter votare. «Nelle zone rurali l’affluenza è più scarsa ma le donne si sono mobilitate e in molti casi sono proprio loro ad andare in giro, casa per casa, a sollecitare la gente a recarsi alle urne» affermava Abuk Nikanora Manyok, direttore dell’ufficio per le zone rurali della Commissione nei giorni del Referendum. Nelle zone più isolate spesso le persone hanno dovuto camminare per chilometri per raggiungere i seggi. Ma lo hanno fatto con grande sacrificio, determinazione e costanza. Addirittura in alcune zone rurali è stato chiesto alle varie chiese di celebrare la messa o il servizio della Parola a mezzanotte del sabato precedente al 9 gennaio per poi andare a mettersi in fila per votare nei relativi seggi. In diversi posti tanta gente ha fatto la fila durante la notte per essere tra i primi ad andare a votare. In tutto il paese c’era grande entusiasmo e mobilitazione. Nei primi tre giorni di voto quasi l’80% delle persone complessive nel paese aveva già votato.

Osservatori internazionali
Per verificare e osservare il democratico svolgimento del Referendum vi erano circa 1.400 osservatori (europei, americani e africani) che monitoravano le operazioni di voto. Tra gli osservatori molto significativa la presenza di Jimmy Carter, ex presidente degli Stati Uniti. Era in Sud Sudan a capo della missione di osservatori americani e della sua organizzazione. Dopo aver notato che i sud sudanesi vogliono «cambiare pagina e lasciarsi alle spalle conflitti e miseria», ha dichiarato: «Allo stato attuale, sono fortemente convinto che il referendum soddisferà gli standard internazionali». Carter ha inoltre spiegato di aver incontrato a Khartoum il presidente del Sudan Omar el Bashir che gli ha assicurato di voler rispettare e accettare la decisione dei sud sudanesi. Anche l'attuale presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha parlato di «un evento storico»; l’ex segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, di una «prova di democrazia» che permette a un popolo di «scegliere il proprio futuro».
Tutti gli osservatori internazionali al referendum nei loro rapporti ufficiali sulla consultazione hanno già detto che il referendum per l'indipendenza del Sudan del Sud è credibile e ben organizzato. "La missione di osservatori elettorali dell'Unione europea valuta il processo elettorale nel Sudan meridionale credibile e ben organizzato in un contesto per lo più pacifico", si legge in una nota preliminare. E così via anche gli altri numerosi gruppi di osservatori sorpresi del modo pacifico, ordinato e paziente in cui la gente in tutto il paese ha intrapreso questa lunga settimana di voto referendario. Una grande lezione di democrazia e impegno civile per la ricerca nonviolenta e comunitaria di valori fondamentali per il popolo del Sud come la libertà e l’autodeterminazione. 


Salva kiir e i vescovi
La domenica successiva al referendum e al termine delle votazioni, il presidente Sud Sudanese Salva Kiir, cattolico praticante, dando per scontata l’indipendenza, parlando durante una celebrazione eucaristica nella Cattedrale S.Teresa di Juba ha lanciato un appello alla popolazione perché sia pronta a perdonare il Nord per i morti inflitti al Sud del Paese, durante quasi 40 anni di guerra. "Per i nostri fratelli e sorelle morti, in particolare per coloro che sono periti durante i combattimenti, noi dobbiamo, come ha fatto Cristo sulla croce, perdonare coloro che hanno causato la loro morte". Un invito alla riconciliazione con il Nord che sarà sicuramene uno dei valori fondamentali insieme alla pace e alla giustizia che l’intera società sudanese politica, civile e religiosa dovrà impegnarsi a portare avanti seriamente senza stancarsi negli anni a venire, cominciando proprio da casa propria, tra le varie etnie del Sud.
Infatti nell’ultima lettera pastorale dei vescovi cattolici impegnati da decenni in questo processo di pace e formazione delle coscienze di questo paese, il responso della consultazione “non deve essere visto come una minaccia da nessuna delle due parti, ma come un’opportunità. L’indipendenza non significa la fine delle relazioni tra Nord e Sud. La secessione è una divisione di terre, non di persone. Cooperazione, collaborazione dovranno continuare in uno spirito di buon vicinato” in cui reciproci benefici e compromessi “favoriscano entrambi sulle questioni relative al petrolio, le frontiere e la cittadinanza”. I vescovi concludevano il loro appello sperando in una consultazione “libera e trasparente” i cui risultati siano accolti “con calma e responsabilità da parte di tutti” e con l’invito a risolvere in modo creativo le “legittime aspirazioni della popolazioni nel Sud Kordofan e nel Blue Nile entro la fine del periodo ad interim, previsto l’8 Luglio 2011”.


Risultati parziali ma quasi.....
I risultati parziali in questi giorni sono annunciati via radio, stampa, televisione e anche internet. Però bisognerà aspettare probabilmente tra il 7 e il 14 febbraio per i dati definitivi e ufficiali, annunciati direttamente da Khartoum. Circa tre milioni e 750.000 degli aventi diritto sono concentrati nelle regioni meridionali, ma altri sud sudanesi sono sparsi anche in altri paesi della diaspora e anche nel Nord Sudan dove gli iscritti sono circa 100mila, per lo più residenti a Khartoum.
Mentre scrivo i risultati sono: circa 3 milioni e 700 mila persone sono andate a votare (circa il 90% del totale), il 1,45% ha votato per l’Unità e il 98,55% per la Secessione del Paese. Sono state scrutinate circa il 99% dei voti. Manca poco al termine della conta e i risultati sono schiaccianti, sconcertanti ed eloquenti allo stesso tempo. E’ chiara la determinazione del popolo del Sud nel scegliere la separazione e quindi l’indipendenza del Paese nei confronti del Nord. Si apre una nuova era per il Sudan, sia a Sud e ancor di più al Nord. Sarà interessante osservare non solo ciò che accadrà al Sud autonomo dove molti critici stranieri sono scettici nel considerare il Sud capace di gestirsi da solo. Ma anche al Nord dove Bashir continuerà comunque a sentirsi nel mirino con troppe questioni aperte. Se manterrà le promesse di rispettare e di lasciare andare il Sud per la sua strada dopo il voto plebiscitario per l’indipendenza, avrà ancora dei fuochi nazionali pericolosi con alcune zone che rimangono al Nord quali: il Blue Nile, Sud Kordofan e il dramma del Darfur. Anche queste regioni da tempo spingono per un autonomia e si sono fatte sentire ad alta voce nei corridoi del palazzo del governo di Bashir. L’NCP e Bashir accetteranno la sfida di lasciare andare l’SPLA e il Sud per la loro strada? Comunque sia, sta cominciando una nuova era di cambiamento per l’intero Sudan. Il Sudan non sarà mai più lo stesso!
Sono grandi la speranza e le aspettative che aiutano la gente ad avere fiducia in un cambiamento che è storico non solo per il Sudan ma anche per tutta l’Africa. Anche se ad oggi, a garanzia del rispetto degli accordi di pace del 2005 in Sudan sono dispiegati circa 10.000 peacekeeper dell'Onu.
Continuerà ad essere un complicato intreccio geopolitico-economico e militare, in cui gli interessi economici vengono prima di tutto. Ora incombe l'incognita per la tenuta della “pace”, in caso di separazione tra nord e sud. Lo stesso al-Bashir si è contraddetto sulla questione, affermando da una parte di rispettare l'esito del referendum, dall'altra un mese fa, che non intende accettare «nessuna altra opzione rispetto all'unità» del paese. Proprio per questo, è prevedibile che il nuovo corso di un Sud Sudan indipendente, non sia preso alla leggera dai colossi delle multinazionali del petrolio e minerarie presenti e soprattutto dalla Comunità Internazionale che dovrà essere all’erta e accompagnare seriamente questo processo nei 6 mesi che rimangono per arrivare all’annuncio ufficiale dell’indipendenza del Sud dal Nord, previsto dagli accordi di Pace (CPA) che escludendo problemi imprevisti sarà il 9 Luglio 2011. E quindi la nascita del 54° Stato Africano!

I giornalisti e il Sudan

Nei giorni precedenti il referendum, ho visto moltissimi giornalisti e troupe televisive da tutto il mondo invadere Juba e il Sud Sudan e restare soltanto qualche giorno durante la settimana del voto. Per molti di loro c’era poca conoscenza e preparazione sul Sudan, la sua storia, geografia, etnie, religione e tanto altro. Quasi tutti erano sorpresi dell’andamento del voto e della massa di persone pacifiche che riempivano come formiche tutti i seggi urbani e rurali del Paese. Molti di loro e qualche analista politico avrebbe preferito registrare violenze e scontri tra le etnie o in alcune zone del Paese. E infatti quando nei primi giorni della settimana ci sono stati scontri e una cinquantina di morti nell’area di Abyei dove il referendum era stato posposto per ragioni di tensione fra le etnie Dinka Ngok e Massirya del Nord, esattamente l’area petrolifera più importante del Sudan, tutta l’attenzione mediatica è scivolata solo su quella regione perché secondo loro un referendum pacifico come stava avvenendo fino a quel momento in tutto il paese non era da headlines. Sembra assurdo ma è così. Una realtà quella di Abyei che è aperta da tempo per tracciare i confini tra Nord e Sud ma soprattutto come dividersi i giacimenti più importanti del Sudan. Questa sarà l’incognita che dovrà essere risolta nei prossimi 6 mesi.
Un mondo mediatico sempre alla ricerca del sensazionale e di notizie che scottano in tutti i sensi e che fanno i primi titoli dei telegiornali. Molti amici e conoscenti mi hanno scritto dicendo che non hanno letto, visto o ascoltato molto sul referendum del Sud Sudan sulle televisioni nazionali o sui giornali nazionali, se non nelle riviste o websites specializzati. Ma lo scettiscismo rimane! Sono in molti gli scettici sia mediatici che politici che affermano che il Sud Sudan non ce la farà in un prossimo futuro autonomo.

Ma quali prospettive future?

Molti si interrogano seriamente sulle prospettive per il futuro: potrà l’indipendenza introdurre l'era della pace e dello sviluppo dei sud sudanesi che hanno sognato durante il mezzo secolo passato?
Infatti le sfide e i compiti  futuri non sono così incoraggianti. La popolazione è prevalentemente rurale e povera:- il 78% dipende dall'agricoltura di sussistenza o dal bestiame per il loro sostentamento. Metà della popolazione è al di sotto dei 18 anni di età; della popolazione superiore ai 15 anni solo il 27% sa leggere e scrivere. Il 37% di età superiore ai 6 anni non hanno mai frequentato la scuola. Migliaia di persone stanno tornando alle loro case nel Sudan meridionale e necessitano di assistenza per ricostruire le loro case e nuove comunità. Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, i “displaced” che sono rientrati al Sud sono 180 mila. Molte di questi rifugiati interni rimangono settimane ai margini di strade e piazze ad aspettare camion, macchine, barconi e altri mezzi per iniziare il lungo esodo verso il Sud, 600 e più chilometri verso la loro terra di origine. Vogliono tornare a casa  in questo momento storico di un referendum che cambierà sicuramente gli equilibri, la geografia e la storia di questo paese. E se chiedi loro perché si mettono in viaggio e con che spirito lo fanno, ti rispondono: ”Siamo contenti perché finalmente torniamo a casa. Saremo parte della costruzione del nostro paese. Là potremo costruire le nostre case e chiese e pregare come vogliamo”. La loro speranza è grande ma la dura realtà e che la vita non sarà per niente facile. Arrivano al Sud e si troveranno senza lavoro e una casa e si insedieranno molti di loro, nelle periferie delle città o cittadine del Sud. E molti altri sudisti dal Nord, probabilmente seguiranno la loro strada molto presto. Dipenderà molto da come Omar el Bashir e il Nord accoglierà questi risultati. Ma il messaggio che questa gente ci porta è: “Finalmente siamo a casa nostra e con la libertà di essere cittadini nel nostro paese” La conquista della libertà è un grande dono e diritto umano per tutti gli uomini in tutto il mondo. E loro lo fanno anche a costo di soffrire e anche morire per essa!

Ma ci sono gia’ segni di speranza

Dopo la firma dell’accordo di Pace (CPA), il Goss (Governo Semiautonomo del Sud Sudan) negli ultimi 6 anni ha cominciato a tracciare una strategia per la creazione delle strutture di governo creando ministeri e varie infrastrutture e migliorando l'accesso ai servizi di base. Una priorità è garantire la sicurezza alimentare, un altra è la ricostruzione del sistema di istruzione e sanitario. Sistemi che sono stati in gran parte distrutti durante gli anni dell’ultimo conflitto durato appunto 21 anni. Il Goss, con altri governi, agenzie internazionali e le Chiese, sta lavorando con le comunità locali per affrontare le questioni della sicurezza alimentare, per fornire programmi di istruzione primaria e secondaria e migliorare il settore sanitario nei dispensari e nei pochi ospedali.

Scuole sotto l’albero

I media internazionali mostrano spesso le immagini di bambini nelle scuole in Sud Sudan che studiano sotto gli alberi, imparando le lezioni nella polvere. Anche se queste foto sono vere, i cambiamenti sono in corso. Dal 2007 al 2009, quindi in soli due anni, l’iscrizione alla scuola elementare è aumentato di oltre il 22 %, da 1.127.963 a 1.380.580 studenti (maschi: da 710.703 a 871.804; ragazze: da 417.260 a 508.776) e le aule della scuola primaria del 62 %, da 6.587 a 10.663. Nello stesso periodo, la scolarizzazione secondaria è aumentato del 75 per cento, da 25.144 a 44.027 e le aule della scuola secondaria è aumentato del 85 %, 414-764.
Tra le sfide e le difficoltà che si prospettano, ci sono anche molti segnali incoraggianti.
 Primo e forse il più importante, i sudanesi del sud sono popoli coraggiosi e impegnati. Hanno sofferto molto. Adulti e adolescenti portano i segni e le memorie del conflitto e della guerra. Per la gente il CPA è stata una parentesi nella loro lotta per una società giusta e dignitosa. Consapevoli o meno, il Referendum è ancora un altro passo avanti in questa lotta.

Portare le citta’ alle campagne

Certamente sarà un partire da zero ma intanto il Governo Semiautonomo del Sud ha cominciato a dare qualche risultato significativo negli ultimi sei anni: le istituzioni di base del governo sono in atto; i ministeri cominciano a funzionare; speciali commissioni stanno lavorando con impegno, spesso con le controparti del Nord, per affrontare questioni critiche quali la delimitazione dei confini, la condivisione delle risorse naturali (circa il 75 % delle riserve conosciute di petrolio sono nel Sud), la divisione del debito nazionale, la creazione e separazione dei sistemi finanziari, chiarire l’appartenenza e la cittadinanza, la costruzione delle infrastrutture economiche e sociali, con particolare attenzione alla istruzione, sanità e trasporti.
Per chi passa a Juba, che sta crescendo a vista d’occhio ogni giorno, i grandi cambiamenti sono impressionanti. Ma non basta. Salva Kiir nel suo discorso d’installazione come presidente dopo le elezioni dell’Aprile 2010, ha dichiarato che lo slogan scelto dal suo governo dall’inizio del loro mandato: “Portare le città alle campagne” non era ancora diventato realtà. Era ancora molto lontano quel sogno. Ma che ora si era decisamente in cammino verso un miglioramento sociale, economica ed educativa della vita della gente soprattutto delle campagne. È un sogno o diventerà realtà? Il probabile 54° paese dell’Africa ci sta già provando.....

*Missionario Comboniano
         

 

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