Articolo 21 - Editoriali
Amore d'acciaio
di Jacopo Marocco
Non riesco a sentire cosa dice. Siamo troppo distanti. Mi sta urlando qualcosa, ma non riesco a capire. Si mette le mani a coppa intorno alla bocca e prova di nuovo. Niente. Nisba. Nada de nada.
In acciaieria sembra di essere in discoteca: per capirsi bisogna urlarsi nelle orecchie.
Una lava fluida fuoriesce copiosa dalla crepa che si è aperta poco fa dall’altoforno. Scorre tra di noi. È anche bella da guardare: i suoi colori che variano dal giallo, all’arancione, al rosso sono tra i miei preferiti. Peccato non si possa toccare, peccato che raggiunga quasi i millequattrocento gradi.
Peccato che questo fiume caldo sia troppo largo da saltare.
Peccato la troppa paura da superare.
Peccato che dietro a noi non ci sia nessuna via d’uscita.
Siamo dei topi in trappola, operai in fabbrica.
Ora gesticola. Con l’indice s’indica la bocca.
“BOCCA?” Urlo io.
Scuote forte la testa. No, non è “bocca” ciò che vuole di dirmi. Riesce a capirmi? Come fa?
Si passa l’indice intorno alle labbra. Ah ok, ci sono. Vuole che legga il labiale. Ho capito, faccio segno di “sì” con la testa.
Seguo le sue labbra. Le vedo come se andassero a rallentatore.
Credo stia dicendo: “IO”, “TI” e poi…”ANO”. “Ano”? Non capisco.
Ripete.
Ora alle parole affianca dei gesti: con l’indice indica se stesso, poi indica me ed infine disegna un cuore in aria con le dita. Ora è più chiaro. Possibile che sia così stupido? So che non si presenterà più il problema, ma non dovrei più fumare hashish prima di venire a lavoro: mi rallenta troppo.
Ha detto:
“IO TI AMO!”
Mi ama! Non ci credo. Mi ama!
Subito mi batto una mano sul petto ed urlo:
“ANCHE IO TI AMO!”.
Sorride.
Sorrido.
Sento caldo alla punta dei piedi: il fiume di acciaio fuso sta allargando sempre più i suoi argini.
Mi guardo intorno.
Ci sono lunghe aste d’acciaio.
Stamattina non c’erano, forse ce l’ha messe il mio angelo custode. Ne predo una. Indietreggio fino al muro e prendo la rincorsa. Prendo “la smessa”, come direbbe mia nonna. Oh, nonna, se fossi qui a vedermi così disperato – ma anche così maledettamente felice.
Guardo davanti a me, oltre la brodaglia bollente: la sua figura ha su di me l’effetto di uno sciamano che scaccia ogni mia paura.
In un attimo penso a quanto tempo abbiamo perso inutilmente. Penso a tutte le volte in cui avrei voluto dire quello che provavo, ma che la paura di non esser corrisposto – o almeno capito – mi ha frenato. Penso a tutte quelle volte in cui ho creduto che quel gioco di sguardi, quella complicità particolare, fossero nient’altro che castelli in aria costruiti da me. Penso a quanto siamo stati sciocchi a non dichiararci prima il nostro amore, solo per paura di quello che avrebbero detto le nostre famiglie, i colleghi, la gente…. Penso che c’è voluta la morte per farci venire allo scoperto.
Basta pensare.
Corro.
Impunto l’asta.
Salto.
Ci riesco. Ci riesco. Ci riesco.
Sono di là, cioè di qua. Ci sono riuscito.
Finalmente insieme, finalmente vicini.
Gli dico:
”Grazie, io neanche di fronte alla morte avrei avuto il coraggio di dire nulla, sono un codardo.”
Mi dice:
“Non sei codardo, hai attraversato una colata d’acciaio fuso per me!”
Lo guardo estasiato nella sua tuta blu sporca di lavoro, fatica e novecento euro al mese. E’ bellissimo.
Mi prende una mano. Mi stringe a sè. Ci baciamo. Per la prima ed ultima volta ci assaggiamo.
Sento alle mie spalle un boato: l’altoforno sta crollando. Un mare di lava d’acciaio fuso inizia ad invadere la fabbrica. Intorno a noi tutto sta per diventare un inferno.
Non importa, noi siamo già in paradiso.
In acciaieria sembra di essere in discoteca: per capirsi bisogna urlarsi nelle orecchie.
Una lava fluida fuoriesce copiosa dalla crepa che si è aperta poco fa dall’altoforno. Scorre tra di noi. È anche bella da guardare: i suoi colori che variano dal giallo, all’arancione, al rosso sono tra i miei preferiti. Peccato non si possa toccare, peccato che raggiunga quasi i millequattrocento gradi.
Peccato che questo fiume caldo sia troppo largo da saltare.
Peccato la troppa paura da superare.
Peccato che dietro a noi non ci sia nessuna via d’uscita.
Siamo dei topi in trappola, operai in fabbrica.
Ora gesticola. Con l’indice s’indica la bocca.
“BOCCA?” Urlo io.
Scuote forte la testa. No, non è “bocca” ciò che vuole di dirmi. Riesce a capirmi? Come fa?
Si passa l’indice intorno alle labbra. Ah ok, ci sono. Vuole che legga il labiale. Ho capito, faccio segno di “sì” con la testa.
Seguo le sue labbra. Le vedo come se andassero a rallentatore.
Credo stia dicendo: “IO”, “TI” e poi…”ANO”. “Ano”? Non capisco.
Ripete.
Ora alle parole affianca dei gesti: con l’indice indica se stesso, poi indica me ed infine disegna un cuore in aria con le dita. Ora è più chiaro. Possibile che sia così stupido? So che non si presenterà più il problema, ma non dovrei più fumare hashish prima di venire a lavoro: mi rallenta troppo.
Ha detto:
“IO TI AMO!”
Mi ama! Non ci credo. Mi ama!
Subito mi batto una mano sul petto ed urlo:
“ANCHE IO TI AMO!”.
Sorride.
Sorrido.
Sento caldo alla punta dei piedi: il fiume di acciaio fuso sta allargando sempre più i suoi argini.
Mi guardo intorno.
Ci sono lunghe aste d’acciaio.
Stamattina non c’erano, forse ce l’ha messe il mio angelo custode. Ne predo una. Indietreggio fino al muro e prendo la rincorsa. Prendo “la smessa”, come direbbe mia nonna. Oh, nonna, se fossi qui a vedermi così disperato – ma anche così maledettamente felice.
Guardo davanti a me, oltre la brodaglia bollente: la sua figura ha su di me l’effetto di uno sciamano che scaccia ogni mia paura.
In un attimo penso a quanto tempo abbiamo perso inutilmente. Penso a tutte le volte in cui avrei voluto dire quello che provavo, ma che la paura di non esser corrisposto – o almeno capito – mi ha frenato. Penso a tutte quelle volte in cui ho creduto che quel gioco di sguardi, quella complicità particolare, fossero nient’altro che castelli in aria costruiti da me. Penso a quanto siamo stati sciocchi a non dichiararci prima il nostro amore, solo per paura di quello che avrebbero detto le nostre famiglie, i colleghi, la gente…. Penso che c’è voluta la morte per farci venire allo scoperto.
Basta pensare.
Corro.
Impunto l’asta.
Salto.
Ci riesco. Ci riesco. Ci riesco.
Sono di là, cioè di qua. Ci sono riuscito.
Finalmente insieme, finalmente vicini.
Gli dico:
”Grazie, io neanche di fronte alla morte avrei avuto il coraggio di dire nulla, sono un codardo.”
Mi dice:
“Non sei codardo, hai attraversato una colata d’acciaio fuso per me!”
Lo guardo estasiato nella sua tuta blu sporca di lavoro, fatica e novecento euro al mese. E’ bellissimo.
Mi prende una mano. Mi stringe a sè. Ci baciamo. Per la prima ed ultima volta ci assaggiamo.
Sento alle mie spalle un boato: l’altoforno sta crollando. Un mare di lava d’acciaio fuso inizia ad invadere la fabbrica. Intorno a noi tutto sta per diventare un inferno.
Non importa, noi siamo già in paradiso.
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