di Antonio Di Pietro*
Nel 1993, con un legittimo referendum, i cittadini italiani stabilirono che non doveva più esserci finanziamento pubblico ai partiti. A quel punto si ponevano davanti ai partiti due strade: rinunciare totalmente ad avere un sostegno da parte dello Stato per le loro attività politiche e istituzionali, oppure accontentarsi di un rimborso elettorale proprio e solo in occasione delle varie campagne elettorali ed entro un limite decente prefissato.
I partiti, anche se ultimamente non godono più di alcuna credibilità, sono comunque strumenti essenziali per la democrazia, tanto è vero che sono previsti e garantiti dalla Costituzione. Pertanto la rinuncia totale, che all’apparenza era la soluzione più lineare, venne subito osteggiata per un principio apparentemente nobile: la possibilità di fare campagna elettorale, e quindi di poter più agevolmente essere eletto, sarebbe stata riservata solo a chi aveva la possibilità economica di farla, cioè i ricchi, oppure a chi fosse disposto a ‘vendersi l’anima’ per avere finanziamenti privati, da parte di soggetti che poi, ad elezione avvenuta, gli avrebbero chiesto la contropartita in termini di provvedimenti di favore e/o appalti pilotati e taroccati.
Con questa premessa di apparente buon senso, il legislatore, e quindi di fatto ed in concreto gli stessi partiti destinatari dei benefici pubblici, peraltro in pieno conflitto di interessi, fece ingoiare ai cittadini italiani la strada del rimborso elettorale, emanando un’apposita legge in tal senso (legge n. 157 del 3 giugno 1999).
Orbene, per logica e per definizione, la legge che ha istituito il ‘rimborso delle spese elettorali’ avrebbe dovuto limitare la sua operatività, appunto, solo ed esclusivamente al ‘rimborso’ di ciò che era già stato effettivamente speso, ovviamente con un limite ben preciso, e contenere una indicazione chiara di quali spese potevano essere considerate rimborsabili e l’obbligo di presentare, per ogni richiesta di rimborso, la relativa documentazione di riscontro. Inoltre, doveva essere previsto che i controlli fossero effettuati da un’Autorità terza (es. Corte dei Conti) e non dal Parlamento, dai revisori ufficiali dei conti, nominati d’intesa dai presidenti delle due Camere all’inizio di ogni legislatura e cioè dagli stessi partiti che dovevano essere controllati Autorità che potesse controllare preventivamente la bontà e congruità delle spese effettuate. Infine, bisognava prevedere adeguate sanzioni penali, civili, elettorali (decadenza dell’elezione) ed amministrative in caso di violazione dei predetti obblighi.
Insomma, ci voleva una legge che potesse consentire solo ed al massimo, alla fine di ogni campagna elettorale, il rimborso di quanto il partito aveva espressamente speso per quella specifica campagna elettorale, ed entro un limite decente ed accettabile.
Invece, la legge che è stata emanata e quelle successive di “aggiustamento” hanno previsto la creazione di un fondo per il rimborso delle spese elettorali per ogni elezione politica (europee, nazionali e regionali) a forfait (un euro all’anno per ogni cittadino avente diritto al voto iscritto nelle liste elettorali della Camera dei Deputati e per ogni tipo di elezione politica, sia che il cittadino avesse votato sia che non avesse votato).
Poi è stato deciso che il fondo così costituito venisse distribuito annualmente ai partiti che avevano partecipato alle elezioni, in proporzione ai voti presi: quindi, di fatto, ogni partito ha sempre ricevuto, annualmente, non un euro per ogni voto preso, ma anche la parte degli elettori che non avevano votato (diversa quindi per ogni elezione). 1 euro e 40 centesimi, tanto per dirne una, per le elezioni politiche della Camera dei Deputati del 2008. Infine, è stato previsto che ogni partito, una volta incassato il rimborso, potesse usarlo per ogni sua esigenza politica, e non solo per motivi elettorali, e che potesse incassare tutto il rimborso assegnato a forfait anche se, di fatto, ne aveva speso per la campagna elettorale solo una minima parte. Insomma, con una serie di escamotage legislativi è stato fatto rientrare dalla finestra proprio quel finanziamento pubblico ai partiti, che gli elettori avevano appena cancellato con un referendum.
Anzi, i partiti hanno fatto di peggio: hanno moltiplicato all’infinito l’entità del finanziamento pubblico, aggiungendoci pure gli interessi. E più aumenta l’astensione più i partiti guadagnano: alla faccia della Costituzione!
Noi dell’Italia dei Valori abbiamo deciso di dire basta. Visto che il Parlamento non si decide a intervenire, e anzi dal mazzetto delle riforme questa è stata proprio cancellata, chiederemo ai cittadini di farla.
La Costituzione ci mette a disposizione due strumenti preziosi di democrazia diretta, e noi intendiamo usarli entrambi. Raccoglieremo le firme: sia per un referendum abrogativo di tutte le norme che permettono di aggirare la volontà popolare, e hanno mantenuto il finanziamento pubblico cambiandogli nome, sia per una legge di iniziativa popolare che promuova una diversa regolamentazione.
Almeno in questo modo cercheremo di utilizzare quella parte di finanziamento pubblico che anche noi dell’IDV abbiamo ricevuto. Noi possiamo farlo perché i soldi in più che ci sono arrivati non li abbiamo fatti sparire, come è accaduto in altri partiti, ma li abbiamo sempre tenuti tutti in cassa e messi regolarmente a bilancio. Come, nel corso del tempo, ha potuto riscontrare ogni Autorità giudiziaria (civile, penale e contabile).
*tratto da http://www.antoniodipietro.it