di Federico Orlando
Credo che in molti, il 1 giugno, nei giardini del Quirinale hanno tentato di leggere sul volto di Napolitano quanto sia pesato l'intrigo che non poteva non colorare di giallo anche la manovra d’emergenza, necessaria per riportare i conti sotto controllo. Il presidente aveva firmato quella manovra solo il giorno prima, mentre il governatore Draghi insisteva sull'evasione fiscale come causa prima della macelleria sociale. Si sa pure che ha firmato dopo aver manifestato dubbi e ottenuto correzioni, su alcuni punti iniqui o inopportuni e su materie che il buongoverno vorrebbe affidate non a un decreto (che entra immediatamente in vigore) ma a un disegno di legge da sottoporre alla riflessione preventiva del parlamento. Si tratta di iniquità e inopportunità di “misure che colpiscono alla cieca”, così definite da Piero Ichino, nelle quali il presidente non è riuscito a cogliere nemmeno l'eco della raccomandazione da lui rivolta a tutti: poiché il decreto – aveva detto - deve irrinunciabilmente riportare entro il 2012 il rapporto tra deficit e prodotto interno sotto il 3 per cento, si faccia in modo che i sacrifici siano altrettanto irrinunciabilmente ripartiti fra tutti. Questa era l’indicazione, la moral suasion del capo dello stato, che lasciava da parte, al momento, ambizioni più alte: prima, fra tutte, non ridurre la manovra a un taglio di alberi vecchi e giovani, vigorosi e parassiti, come accade ai deforestatori frettolosi, a caccia di guadagni più che di terre da mettere a coltura; ma orientarla in modo che al risanamento dei conti si affianchino , al più presto, il rilancio dell’Italia produttiva e del lavoro, le riforme anticorporative e antifeudali necessarie.
Ma, nei giorni in cui queste scelte, riflessioni, ripensamenti, compromessi maturavano tra palazzi di Roma e Milano, della politica dell’economia e delle autonomie; e mentre ricorrenze infauste come le bombe di Roma, Firenze e Milano del maggio 1993 facevano evocare perfino ad uomini come l’allora primo ministro Ciampi l’ombra del colpo di stato P2-mafia-servizi segreti; proprio in quei giorni si rappresentava alla platea degli italiani, ben convinti della inevitabilità della manovra e dei sacrifici, la pantomima del primo attore, nel ruolo di primo ministro: ci metto o non ci metto la faccia affianco alla parola “sacrificio”? posso dire di essere come il duce che non contava niente perché facevano tutto i suoi gerarchi traditori (come piace sentire a tantissimi nostalgici)? Oppure presento io stesso la manovra, affinché non appaia atto di nascita del governo Tremonti? posso salvare i miei miti del “meno tasse”, rinviandone ancora una volta l’avvento, e “niente mani nella tasche degli italiani”, visto che ci penseranno regioni e comuni ed enti che fissano tariffe e mandano bollette?
Alla fine, ricevuto il rifiuto della prima attrice, nelle vesti della confindustria, a infilarsi nell’alcova delle corresponsabilità governative; scontato il no del maggior sindacato dei lavoratori, che tra 10 giorni sarà in piazza con lo sciopero generale, per quel che serve; stordito dai mugugni dei sindacati collaborativi, sull’ iniquità di spremere i soliti donatori di sangue; confuso dai paletti posti da Pd,Udc e Idv tra la generosa moral suasion di Napolitano e l’impossibilità di diventare comprimari di un delitto sociale; alla fine il primo attore ha tentato il colpo grosso di ingaggiare (quasi fosse il nuovo allenatore del Milan) lo stesso Napolitano come coautore del provvedimento. Così declamava: 1) di non conoscere ancora venerdì sera il contenuto del provvedimento (in mattinata l’aveva illustrato insieme al ministro in conferenza a palazzo Chigi), 2) di aver visitato Napolitano, ma solo per parlare di croci del lavoro per il 2 giugno; 3) di aver inviato al Quirinale un testo del decreto senza la sua firma (smentito subito dalla ragioneria generale e dallo stesso ministro del tesoro); 4) di voler aspettare che il testo gli tornasse con la firma e le considerazioni del presidente, per poterlo firmare a sua volta. Insomma, il piccolo sultano, che diventa piccolissimo quando si mette a giocare con le istituzioni, avrebbe voluto farci credere che sarebbe stato lui a firmare controvoglia un decreto del capo dello stato e non questi a controfirmare un decreto del governo. Un ribaltamento di 360 gradi dell’ordine costituzionale. Forse è per questo che Bersani, probabilmente sgomentando un po’ di mammoni del Pd, ha definito il comportamento del premier “ai limiti estremi del quadro istituzionale”; e ha ribadito il no del partito alla manovra. Un no che, ci attendiamo, si ripeterà netto e senza silenziatore sul ddl Alfano delle intercettazioni, scattato ieri al senato all’arma bianca contro la libertà degli italiani di informare e di essere informati.
Così il quadro dell' insofferenza per gli ordinamenti si arricchisce: dal tintinnio di sciabole del generale De Lorenzo al piano di rinascita P2, dal fragore di tritolo mafioso del 1993 alla nuova tecnica del golpe per stati d’avanzamento, come si addice a un ex esperto di edilizia: fango sulla magistratura, rivalutazione del fascismo, sostituzione dei parlamentari eletti coi nominati, disprezzo della costituzione e delle istituzioni di garanzia, ridicolizzazione del parlamento (evirato come i governi che alla vigilia del bolscevismo e del fascismo si chiamarono Kerensky e Facta), sbeffeggiamento delle authority, deificazione di se stesso dal balcone e dall’Eiar: fino alla penetrazione ambigua nel Quirinale, per catturarvi la firma del capo dello stato. Forse è conoscendo questa fantasia italiana per l'intrigo che Cossiga, quando abitava sul colle, teneva dietro le siepi i corazzieri in tuta mimetica e parabellum; e, tra una picconata e l’altra, giocava ai soldatini.