di Santo Della Volpe
“Ci manca la cultura della sicurezza, per noi italiani sembra che il rispetto delle regole non sia inciso nel DNA; ma anche per questo sono orgoglioso della fiction ‘Gli ultimi del paradiso’che porta finalmente in Tv ed in prima serata il problema delle morti sul lavoro”: Massimo Ghini è appena sceso dall’aereo da New York dove ha presentato con successo “Enrico Mattei”,un’altra produzione televisiva Rai alla settimana della Fiction. Un altro tema spinoso, i misteri italiani dei delitti mai risolti, mentre i morti sul lavoro sono il dramma quotidiano italiano che non si riesce ancora a debellare. E questo sceneggiato affronta i tanti motivi di questi infortuni, dalle varie sfaccettature e dalle molte cause con un affresco molto popolare, semplice, dove i meccanismi del racconto abbracciano temi sociali forti (le famiglie con pochi soldi, la droga per tenersi su nei turni massacranti di lavoro e che sfocia in tossicodipendenza, le responsabilità personali di datori di lavoro e le disattenzioni dei lavoratori), partendo da storie personali e vite vissute ma raccontate con semplicità. Forte della sceneggiatura dove Giancarlo De Cataldo(magistrato-scrittore) e Monica Zappelli hanno fornito un ottimo racconto al regista Luciano Mannuzzi.
Massimo Ghini, protagonista più che credibile nei panni del lavoratore camionista che lentamente prende coscienza del problema di fronte all’infortunio di un compagno di lavoro, prende di petto il problema: “Cominciamo col dire che gli interventi del presidente della Repubblica Napolitano, le campagne giornalistiche, anche quelle vostre di Articolo21, sono state un motivo di ispirazione ed un forte stimolo per la realizzazione di questo progetto: anche sulla scrittura di questo sceneggiato, dove la realtà è entrata continuamente nella sceneggiatura. Cronaca e narrazione sono stati amalgamati in questa fiction”.
Infatti si nota che è uno sceneggiato che tocca la realtà di tutti i giorni vissuta nei cantieri e sulle strade, ad esempio dai camionisti...
“E’ proprio quello che serviva, nel senso che le vostre inchieste, dei giornalisti e dei programmi TV hanno un impatto forte, dal punto di vista emotivo e rappresentativo, quasi crudo nella loro realtà; il nostro è invece una rappresentazione da romanzo popolare che ha la penetrazione della fiction, arriva nelle famiglie italiane all’ora di cena, vuole toccare una platea ampia con l’intento di rappresentare la loro storia,la normalità di tante famiglie italiane di lavoratori, con l’incombenza di questa tragedia che è quotidiana, che viene spesso allontanata dalle nostre preoccupazioni, come se non potesse mai succedere a te, ma solo ad altri; determinando così superficialità, mancanza di attenzione e di rispetto delle regole. L’interesse di questo racconto non è solo la denuncia…c’è anche emozione,perchè altrimenti saremmo finiti anche noi per relegare questi fatti, gli infortuni,tra le tante incombenze quotidiane dei protagonisti ,senza metterle in risalto, trattandoli alla stregua delle notizie che ci arrivano dai giornali e sulle quali finiamo per passarci sopra...”
A volte poi nei nostri giornali o telegiornali sono relegati in poche righe in cronaca, come si dice…
“Infatti, gli operai che si infortunano finiscono poi per diventare quasi dei fantasmi: se io ti chiedo chi sono i morti della Thyssen, forse tu che sei giornalista li ricordi,ma nelle famiglie italiane certamente non se li ricordano: per non parlare poi dei mille lavoratori che muoiono ogni anno in Italia. Chi sono? Quali sono i loro volti? Qual è il dramma delle loro famiglie? IL meccanismo della fiction tv è anche questo: ti fissa il ricordo su facce che diventano simboliche, quegli attori diventano rappresentativi di lavoratori, quei visi che subiscono gli infortuni nello sceneggiato diventano rappresentativi di quel migliaio di persone che invece restano anonimi, nei numeri delle statistiche; restano alla fine solo nella memoria dei loro cari, a significare la tragedia che rischia così di restare confinata nelle loro famiglie. Ecc,o noi vogliamo parlare alle famiglie italiane perché quel dramma non resti solo nella famiglia di chi ha subito l’infortunio. La fiction ha questo potere. Di far diventare problema di tutti le vicende di tanti anonimi, di far diventare sociale una tragedia che spesso è vista come individuale,di farne parlare a tavola e con i figli, sempre se è inquadrata in una storia.,un romanzo popolare, un linguaggio televisivo. E noi speriamo di esserci riusciti”.
Anche perché il problema è quotidiano: anche se il monte ore lavorate è diminuito del 30%, anche se la cassa integrazione è aumentata del 311%, ogni giorno comunque ci sono statisticamente in Italia 2 o 3 persone che muoiono, per non contare delle centinaia che subiscono infortuni più o meno gravi: voi con questo sceneggiato fate un viaggio attraverso la “banalità del male, dell’errore, della disattenzione”?
“Da questo punto di vista dobbiamo dire che la mortalità è calata solo perché è diminuito il lavoro: questa è una considerazione terribile da fare, come se l’unico modo per scongiurare l’aumento degli infortuni fosse non lavorare: come se lavorare significasse comunque correre un rischio di finire nel numero di quei due o tre lavoratori che devono statisticamente morire…Su questo devo dire che il nostro sceneggiato può servire anche a far capire il nesso che c’è tra lavoro, non lavoro ed infortuni. Spesso sui giornali noi leggiamo solo delle cifre, un calo degli infortuni, non vediamo la realtà che c’è dietro, cioè che è calato soprattutto il lavoro.”
Uno sceneggiato quindi a tutto campo: una storia,i personaggi calati in una vita reale,con le storie d’amore e le difficoltà ad arrivare a fine mese,poi il confronto con il mondo dei piccoli e grandi imprenditori, i tempi di lavoro allungati e le pause sottratte alla sosta per poter lavorare di più ed in fretta,infine l’accettazione del rischio pur di non perdere il lavoro…
“Da questo punto di vista noi abbiamo fatto un ragionamento chiaro ed io ho spinto molto su questo anche in alcuni momenti della lavorazione: non ci sono tutti cattivi da un lato e tutti buoni dall’altro. No, ci sono responsabilità che toccano tutti e due le componenti del lavoro, anche se ovviamente il datore di lavoro ha il compito di far applicare le regole di sicurezza. Ma a me è capitato , a Trieste dove abbiamo girato “Gli ultimi del paradiso”, di vedere sotto casa un piccolo cantiere di ristrutturazione di un palazzo, e notare, sollecitato anche dal film nel quale ero impegnato,che ad esempio molti non mettevano il casco in testa, magari perché faceva caldo, di stare solo in canottiera sulle impalcature senza imbracatura. Un giorno mi sono fermato ed ho chiesto loro perché non mettevano le protezioni,il caschetto e loro prima mi hanno risposto con sguardi espliciti e poi hanno cercato delle scuse,il tempo, la fretta…Ecco ,lì ho pensato che è un po’ nel Dna del nostro paese il non rispetto delle regole, la mancanza di una cultura della sicurezza . Che va dal ragazzo che non si mette il casco quando va in moto sino a chi non si lega quando sale sull’impalcatura: così una superficialità può diventare tragica per chi lavora. Credo che in molti casi il non rispetto delle regole sia sorretto da un mutuo accordo… una ‘malaeducazione” da questo punto di vista …Ed il nostro film le dice all’uno,ma le dice anche all’altro…”
Anche questo sceneggiato quindi può far crescere la cultura della sicurezza, con la capacità di penetrazione della fiction televisiva in prima serata.
Basta che non resti un isolato ‘grido nella notte’ , che venga invece accompagnato da un insegnamento della sicurezza nella scuola, da una applicazione della legge rigorosa e dai relativi controlli di un ispettorato del lavoro rafforzato e non depotenziato negli organici e nelle direttive ministeriali, l’ultima delle quali a novembre sembrava dire alle Asl di allentare la “presa” su fabbriche e cantieri a causa della crisi economica…
Perché “Gli ultimi del paradiso” diventi invece la prima di una serie di rappresentazioni televisive della realtà sociale del lavoro in questo paese. Utile, oltre che emozionante.